"Sì" soggiunse la ragazza,  la cui meraviglia  aumentava  ad  ogni

      parola  di  Luigi,  "ma  tu  certamente hai risposto così solo per

      farmi piacere."

      "Non ti ho mai promesso cosa che non ti abbia data,  Teresa" disse

      con orgoglio Luigi, "entra nella grotta, e vestiti."

      A  queste  parole  allontanò la pietra,  e fece vedere a Teresa la

      grotta illuminata da due candele,  che  ardevano  ai  lati  di  un

      magnifico specchio. Sopra una tavola rustica fatta da Luigi, erano

      distesi  gli  spilli di diamanti e la collana di perle;  sopra una

      panca vicina era depositato il rimanente del vestiario.

      Teresa mandò un grido di gioia,  e senza informarsi  donde  veniva

      questo  vestito,  senza ringraziare Luigi,  si lanciò nella grotta

      trasformata in toilette.

      Luigi richiuse la pietra dietro di lei, perché s'accorse che sulla

      cresta di una piccola collina,  che impediva di vedere  Palestrina

      dal  posto in cui stava,  un viaggiatore a cavallo si era fermato,

      incerto sulla strada da tenere, e compariva nell'azzurro del cielo

      con quella nettezza di contorno tipica dei paesi meridionali.

      Lo straniero,  vedendo Luigi,  mise il cavallo a galoppo,  e venne

      alla sua volta.

      Luigi   non  si  era  ingannato:  il  viaggiatore  che  andava  da

      Palestrina a Tivoli  era  incerto  sul  cammino  da  prendere.  Il

      giovane glielo indicò; ma siccome ad un quarto di miglio la strada

      si divideva in tre, e il viaggiatore, giunto a questo luogo poteva

      nuovamente  sbagliare,  pregò Luigi di servirgli da guida.  Questi

      depose a terra il mantello,  si pose sulla spalla la  carabina,  e

      liberato così dal pesante vestito,  camminò davanti al viaggiatore

      con quel passo rapido del montanaro,  che un cavallo a stento  può

      seguire.

      In  dieci minuti Luigi e il viaggiatore si trovarono al crocicchio

      indicato dal giovane pastore: con un gesto maestoso stese la  mano

      e indicò al viaggiatore quella delle tre vie che doveva seguire.

      "Ecco la vostra strada Eccellenza, ora non potete più sbagliare."

      "E  tu  prendi la tua ricompensa..." disse il viaggiatore offrendo

      al pastore alcune piccole monete.

      "Grazie" disse Luigi ritirando la mano,  "ma io rendo un servizio,

      non lo vendo."

      "Ma" disse il viaggiatore,  abituato a quella differenza che passa

      tra la servilità dell'uomo di città e l'orgoglio  del  campagnolo,

      "se tu rifiuti una mercede, accetterai un regalo?"

      "Ah! sì, questa è un altra cosa."

      "Ebbene"  disse  il  viaggiatore,  "prendi  questi due zecchini di

      Venezia,  e dalli alla tua fidanzata per acquistarsi  un  paio  di

      pendenti."

      "E  voi allora prendete questo pugnale" disse il pastore,  "non ne

      ritroverete uno,  la cui impugnatura  sia  meglio  intagliata,  da

      Albano a Civita Castellana."

      "Lo accetto" disse il viaggiatore, "ma allora sono io che ti resto

      obbligato, perché il pugnale vale molto più di due zecchini."

      "Per un mercante può essere,  ma non per me che l'ho intagliato io

      stesso, e mi costa appena uno scudo."

      "Come ti chiami?" domandò il viaggiatore.

      "Luigi Vampa" rispose il pastore collo  stesso  tono  come  avesse

      risposto Alessandro di Macedonia, "e voi?"

      "Io" disse il viaggiatore, "mi chiamo Sindbad il marinaio..."

      Franz d'Epinay ebbe un grido di sorpresa.

      "Sindbad il marinaio!" disse.

      "Sì"  rispose il narratore,  "è il nome che il viaggiatore disse a

      Vampa."

      "Ebbene, che avete da dire a questo nome?" interruppe Alberto. "E'

      un bellissimo nome e le avventure  di  chi  lo  portava  mi  hanno

      divertito assai nella mia prima gioventù."

      Franz non insistette.

      Il  nome  di  Sindbad  il  marinaio,  come  si capirà bene,  aveva

      risvegliato in lui una quantità di ricordi,  non  diversamente  da

      quello  che  aveva  fatto  la  sera  innanzi  il  nome di conte di

      Montecristo.

      "Continuate..." disse all'albergatore.

      "Vampa mise sdegnosamente i  due  zecchini  in  tasca,  e  riprese

      lentamente  il  cammino  per  il quale era venuto.  Giunto a due o

      trecento passi dalla grotta gli parve  di  sentire  un  grido.  Si

      fermò  ascoltando  da  qual  parte  venisse questo grido.  Dopo un

      secondo,  intese pronunciare distintamente il suo  nome;  la  voce

      veniva dalla parte della grotta.

      Balzò come un camoscio; e mentre correva, caricava il fucile, e in

      meno  di un minuto era sulla sommità della piccola collina opposta

      a quella dove aveva intravisto il viaggiatore.  Là si  fecero  più

      distinte le grida: "Aiuto, soccorso!". Girò gli occhi sullo spazio

      che  dominava:  un  uomo  rapiva  Teresa  come  il centauro Nesso,

      Deianira.  Questo uomo che si dirigeva verso il bosco,  aveva  già

      percorso tre quarti del cammino dalla grotta alla foresta.

      Vampa  misurò la distanza;  quest'uomo aveva già duecento passi di

      vantaggio su lui, non vi era possibilità di raggiungerlo prima che

      entrasse nel bosco.  Il giovane si fermò  come  se  i  suoi  piedi

      avessero  messo radice: appoggiò l'incasso del fucile alla spalla,

      levò lentamente la canna nella direzione del rapitore, lo seguì un

      secondo nella corsa, e fece fuoco.

      Il rapitore si fermò, come immobile nell'aria, le ginocchia gli si

      piegarono,  e cadde trascinando nella sua caduta Teresa,  la quale

      si  alzò  subito.  L'altro  restò  steso dibattendosi nelle ultime

      convulsioni dell'agonia. Vampa si slanciò verso Teresa,  che era a

      dieci passi dal moribondo,  in ginocchio.  Allora al giovane venne

      il  terribile  sospetto  che  la  pallottola  che  aveva   colpito

      l'avversario  avesse ferita la fidanzata.  Fortunatamente però non

      fu così,  e il solo terrore aveva paralizzato le forze di  Teresa.

      Quando  Luigi fu ben sicuro che era sana e salva si volse verso il

      ferito era già morto, colle pugna serrate,  la bocca contratta dal

      dolore,  i  capelli ritti dal sudore dell'agonia;  gli occhi erano

      rimasti aperti e minacciosi.

      Vampa si avvicinò al cadavere e riconobbe Cucumetto. Dal giorno in

      cui il bandito fu salvato dai due giovani  si  era  innamorato  di

      Teresa, ed aveva giurato che la giovane sarebbe stata sua. Da quel

      giorno, l'aveva spiata con assiduità; e profittando del momento in

      cui  il suo amante l'aveva lasciata sola per andare ad indicare la

      strada al viaggiatore l'aveva rapita e già la credeva sua,  quando

      la  pallottola di Vampa diretta dal colpo d'occhio infallibile del

      giovane pastore, gli aveva traversato il cuore. Vampa lo guardò un

      momento senza la  minima  emozione  sul  viso  mentre  Teresa,  al

      contrario, tutta tremante ancora, non osava avvicinarsi al bandito

      morto che a piccoli passi, esitando uno sguardo sul cadavere al di

      sotto  della  spalla  del  suo  amante.  Dopo  un momento Vampa si

      rivolse alla sua innamorata.

      "Sta bene, tu sei già vestita. Ora tocca a me prepararmi."

      Infatti Teresa era vestita da  capo  a  piedi  col  costume  della

      figlia del conte di San Felice.  Vampa prese il corpo di Cucumetto

      fra le  braccia,  e  lo  trasportò  nella  grotta,  mentre  Teresa

      l'aspettava fuori.  Se fosse passato un altro viaggiatore, avrebbe

      veduto una cosa strana,  cioè una pastorella guardare  il  gregge,

      vestita  di  cachemire coi pendenti alle orecchie,  una collana di

      perle degli spilli di diamanti,  e  dei  bottoni  di  zaffiri,  di

      smeraldi  e di rubini.  Senza dubbio avrebbe creduto di tornare ai

      tempi di Florian e di ritorno  a  Parigi,  avrebbe  assicurato  di

      avere  incontrata  la  pastorella  delle  Alpi  ai piedi dei monti

      Sabini.  Un quarto d'ora dopo,  Vampa uscì dalla  grotta.  Il  suo

      costume non era meno elegante, nel suo genere di quello di Teresa.

      Aveva una veste di velluto granato coi bottoni d'oro cesellati, un

      giubbetto di seta tutto ricoperto di galloni, una sciarpa annodata

      intorno al collo, un portacartucce tutto in oro ed in seta rossa e

      verde,  i  pantaloni  di  velluto celeste attaccati al disotto del

      ginocchio colle fibbie di diamanti le ghette  di  pelle  di  daino

      ricamate  con mille arabeschi,  ed un cappello su cui sventolavano

      dei nastri di ogni genere;  due catene da orologio pendevano dalla

      sua   cintura   ed   un   magnifico   pugnale   era  attaccato  al

      portacartucce.

      Teresa gettò un grido  di  ammirazione:  Vampa  sotto  quest'abito

      assomigliava ad una pittura di Leopoldo Robert o di Schnetz. Aveva

      indossato  il costume completo di Cucumetto.  Il giovane s'accorse

      dell'effetto che produceva sulla sua fidanzata,  ed un sorriso  di

      orgoglio gli sfiorò le labbra.

      "Ora dimmi,  Teresa,  sei pronta a dividere la mia sorte qualunque

      essa possa essere?"

      "Oh! sì" gridò la ragazza con entusiasmo.

      "A seguirmi ovunque andrò?"

      "Anche in capo al mondo."

      "Allora prendi il mio braccio,  e  partiamo,  poiché  non  abbiamo

      tempo da perdere."

      La  pastorella intrecciò il suo al braccio dell'innamorato,  senza

      neppure domandargli dove la conduceva,  perché in quel momento  le

      sembrava bello,  superbo e potente. E tutti e due si incamminarono

      verso la foresta di cui in breve tempo passarono il confine.

      Non fa bisogno dire che Vampa conosceva  tutti  i  sentieri  della

      montagna.  S'inoltrò dunque nella foresta senza esitar neppure per

      poco,   e  quantunque  non  vi  fosse  praticata  alcuna   strada,

      riconosceva  la direzione che doveva seguire dal solo guardare gli

      alberi ed i cespugli.  Camminarono in tal modo per circa un'ora  e

      un quarto.

      Dopo  giunsero  nel punto più fitto del bosco.  Un torrente il cui

      letto era secco,  conduceva in  una  gola  profonda.  Vampa  prese

      questo  strano  sentiero,  che,  incassato  fra  le  due  rive,  e

      ottenebrato dall'ombra degli alberi, sembrava il sentiero d'Averno

      di cui parla Virgilio.  Teresa,  tornata timorosa  all'aspetto  di

      questo  luogo  selvaggio  e  deserto  si stringeva contro la guida

      senza dir parola;  ma siccome lo vedeva  camminare  con  un  passo

      sempre uguale,  e una calma sempre profonda era sul suo viso,  lei

      aveva la forza di dissimulare la sua emozione.

      Subito,  dieci passi lontano da loro,  un uomo sembrò staccarsi da

      un  albero dietro cui era nascosto,  e prendendo col suo fucile di

      mira Vampa, gridò:

      "Non fare un passo di più o sei morto."

      "Andiamo via!" disse Vampa,  facendo  con  la  mano  un  gesto  di

      disprezzo, mentre Teresa non dissimulando il terrore, si stringeva

      sempre più contro di lui. "I lupi forse si sbranano fra loro?"

      "Chi sei tu?" domandò la sentinella.

      "Sono Luigi Vampa, il pastore della fattoria dei San Felice.

      "Che vuoi?"

      "Voglio  parlare  ai  tuoi compagni che sono sulla piana di Rocca-

      Bianca.

      "Allora seguimi" disse la sentinella, "o piuttosto, giacché sai la

      strada cammina avanti."

      Vampa sorrise con aria di disprezzo alla cautela di questo bandito

      passò avanti con Teresa,  e continuò il suo cammino  collo  stesso

      passo fermo e tranquillo che lo aveva condotto fin là. Dopo cinque

      minuti,  il bandito fece loro segno di fermarsi.  Essi obbedirono.

      Il bandito imitò tre volte il grido  del  corvo,  un  altro  grido

      eguale rispose a questo triplice appello.

      "Ora puoi continuare la strada" disse il bandito.

      Luigi  e Teresa si rimisero in cammino;  ma,  mentre s'inoltravano

      Teresa tremante si  serrava  sempre  più  contro  il  suo  amante;

      infatti attraverso gli alberi si vedevano comparire degli uomini e

      scintillare delle canne di fucile. L'altopiano di Rocca-Bianca era

      sulla  sommità  di  una  piccola  montagna,  che doveva certamente

      essere stata un piccolo vulcano estinto prima che  Romolo  e  Remo

      disertassero  da  Alba  per andare a fondare Roma.  Teresa e Luigi

      giunsero  alla  sommità,   e  nello  stesso  tempo  si   trovarono

      circondati da una ventina di banditi.

      "Ecco  un  giovane  che  vi  cerca,  e desidera parlarvi" disse la

      sentinella.

      "Che vuole da noi?" chiese colui che in assenza del capo ne faceva

      le provvisorie funzioni.

      "Voglio dirvi che  mi  sono  annoiato  di  fare  il  mestiere  del

      pastore" disse Vampa.

      "Ah,  capisco" disse il luogotenente,  "e tu vieni a domandarci di

      entrare nelle nostre file?"

      "Che sia il benvenuto" gridarono molti banditi  di  Ferrusino,  di

      Pampinara e d'Anagni, i quali avevano riconosciuto Luigi Vampa.

      "Sì,  ma  vengo a chiedervi un'altra cosa,  oltre che esser vostro

      compagno.

      "E che vieni a chiederci?" dissero con meraviglia i banditi.

      "Vengo a domandarvi di essere  fatto  vostro  capitano"  disse  il

      giovane.

      I banditi dettero in una gran risata.

      "E  che  hai  fatto  per  aspirare  a  questo  onore?"  domandò il

      luogotenente.

      "Ho ammazzato il vostro capo Cucumetto,  di cui porto le  spoglie"

      disse Luigi,  "ed ho messo a fuoco la villa di San Felice per dare

      il corredo di nozze alla mia fidanzata."

      Un'ora  dopo,   Luigi  Vampa  era  eletto  capitano  al  posto  di

      Cucumetto."

      "Ebbene,  mio caro Alberto" disse Franz volgendosi all'amico, "che

      pensate ora di questo cittadino Luigi Vampa?"

      "Dico che questo è un mito" rispose Alberto,  "e  che  non  è  mai

      esistito."

      "E che significa la parola mito?" domandò Pastrini.

      "Sarebbe  troppo  lungo  a  spiegarsi,  mio caro Pastrini" rispose

      Franz.

      "E voi dite che mastro Vampa esercita in  questo  momento  la  sua

      professione in queste vicinanze?"

      "E  con  un  tale ardire che nessun bandito ne ha mai dato esempio

      uguale."

      "E la polizia non cerca d'impadronirsene?"

      "Che volete?  Egli è d'accordo  ad  un  tempo  coi  pastori  della

      pianura, coi pescatori del Tevere e i contrabbandieri della costa.

      Se si cerca nelle montagne,  è sul fiume, se si insegue sul fiume,

      prende l'alto mare;  poi d'improvviso  quando  si  crede  che  sia

      rifugiato nell'isola del Giglio, di Gianutri, o di Montecristo, si

      vede ricomparire in Albano, a Tivoli o alla Riccia."

      "E qual è il suo modo di fare verso i viaggiatori?"

      "Eh,  mio  Dio,  è  semplicissimo:  a seconda della distanza dalla

      città, accorda loro otto ore, dodici ore, un giorno, per pagare il

      loro riscatto; quando è passato il tempo accorda un'ora di grazia.

      Al sessantesimo minuto di quest'ora se  non  ha  il  riscatto,  fa

      saltare le cervella del prigioniero con un colpo di pistola, o gli

      pianta un pugnale nel cuore, e tutto è finito!"

      "Ebbene,  Alberto"  domandò  Franz al suo compagno,  "siete ancora

      disposto ad andare al Colosseo per la strada fuori delle mura?"

      "Certamente" disse Alberto, "se è la strada più pittoresca."

      In questo momento batterono le  nove,  la  porta  si  aprì,  e  il

      cocchiere comparve.

      "Eccellenza" disse, "la carrozza è alla porta."

      "Ebbene" disse Franz, "andiamo al Colosseo."

      "Per la porta del Popolo, Eccellenza, o per le strade esterne?"

      "Per le strade interne,  per Bacco!,  per le strade interne" gridò

      Franz.

      "Ah,  mio caro" disse Alberto alzandosi ed accendendo il suo terzo

      sigaro, "in verità vi credevo più coraggioso!"

      Dopo  queste parole i due giovani discesero le scale e salirono in

      carrozza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                 Capitolo 34.

                               LE APPARIZIONI.

 

 

      Franz aveva trovato una  via  di  mezzo,  perché  Alberto  potesse

      giungere  al  Colosseo  senza  passare  davanti  ad  alcuna rovina

      antica,  e per conseguenza senza nulla togliere  alle  gigantesche

      proporzioni del Colosseo.

      Proporre  di  passare  per la via Sabina,  voltare ad angolo retto

      davanti a Santa Maria Maggiore e giungere per la via urbana e  San

      Pietro  in  Vincoli  alla  via del Colosseo.  D'altra parte questo

      itinerario  offriva  anche  un  altro  vantaggio,  quello  di  non

      distrarre  con  altre  impressioni Franz da quella prodotta in lui

      dalla storia raccontata dal Pastrini,  e nella quale vi si trovava

      mischiato  il  suo  anfitrione  di  Montecristo.   Perciò  si  era

      appoggiato col gomito nell'angolo, ed era ricaduto in quelle mille

      domande che infinite volte aveva già fatte a  se  stesso,  e  alle

      quali mai era riuscito a dare una risposta soddisfacente.

      Un'altra  cosa  gli  aveva  ancora  fatto  sovvenire  il suo amico

      Sindbad il marinaio,  ed era la  relazione  tra  i  banditi  ed  i

      marinai.  Ciò  che  aveva  detto  Pastrini  sul  rifugio che Vampa

      trovava  nelle  barche  dei  pescatori  e   dei   contrabbandieri,

      ricordava  a  Franz  quei  due  banditi  corsi ch'egli aveva visto

      cenare insieme all'equipaggio del piccolo yacht,  che  deviando  a

      bella posta dal suo cammino era approdato a Porto Vecchio col solo

      scopo di metterli a terra.

      Il  nome  che  il  suo  ospite  si  dava  di Conte di Montecristo,

      pronunciato dall'albergatore dell'albergo Londra,  provava che era

      lo  stesso  che  sosteneva  la  parte  filantropica sulle coste di

      Piombino, di Civitavecchia, d'Ostia e di Gaeta,  come su quelle di

      Corsica, di Toscana, di Spagna, non meno che su quelle di Tunisi e

      di Palermo.

      Era  una prova che egli abbracciava una cerchia di relazioni molto

      estesa.

      Ma per quanto queste riflessioni fossero presenti allo spirito del

      giovane,  esse svanirono quando cominciò a farsi scorgere il tetro

      e gigantesco spettro del Colosseo fra le cui rovine la luna faceva

      passare quei lunghi e pallidi raggi, che sembra cadano dagli occhi

      dei  fantasmi.  La carrozza si fermò a qualche passo dalla fontana

      denominata "Meta sudans".

      Il cocchiere aprì la portiera, i due giovani saltarono a terra,  e

      si  trovarono  in  faccia  ad un cicerone,  che sembrava uscito di

      sotto terra. Quello dell'albergo pure li aveva seguiti,  e così ne

      ebbero due.

      Del  resto  è  impossibile  poter  evitare  a Roma questo lusso di

      guide: oltre il cicerone generale che s'impadronisce  di  voi  dal

      momento  che  mettete  il piede sulla porta di un albergo o di una

      locanda,  e che non vi abbandona che il giorno in cui  mettete  il

      piede  fuori della città,  vi è pure un cicerone addetto a ciascun

      monumento;  si giudichi dunque se si può restar privi di  cicerone

      al Colosseo,  vale a dire al monumento per eccellenza,  che faceva

      dire a Marziale: "Che Menfi cessi di vantare  i  barbari  miracoli

      delle sue piramidi, che cessino di essere vantate le meraviglie di

      Babilonia,  tutto  deve  annichilirsi  davanti  all'opera  immensa

      dell'anfiteatro dei Cesari, e tutte le voci della celebrità devono

      unirsi per lodare questo monumento.

      Franz ed Alberto non tentarono nemmeno di sottrarsi alla tirannide

      ciceronica,  molto più poi sarebbe stato  difficile  al  Colosseo,

      perché  ivi le sole guide hanno il diritto di percorrere i diversi

      punti praticabili del monumento,  colle torce accese.  Non  fecero

      dunque alcuna resistenza, e si abbandonarono anima e corpo ai loro

      conduttori.  Franz  conosceva  già  questa  passeggiata per averla

      fatta dieci altre volte: ma siccome il suo compagno,  più novizio,

      metteva  per  la  prima  volta  il piede nell'anfiteatro di Flavio

      Vespasiano,  debbo confessarlo a sua lode,  nonostante il cicalare

      ignorante delle guide,  egli era commosso da vive impressioni. Non

      è possibile,  senza vederlo,  formarsi un'idea della maestà di una

      simile  rovina,  le  cui  proporzioni sono tutte raddoppiate dalla

      misteriosa chiarezza di  quella  luna  meridionale,  i  cui  raggi

      sembrano i crepuscoli d'occidente.

      Il  riflessivo  Franz,  fatti  appena  cento passi sotto i portici

      interni, lasciò Alberto alle guide,  che non volevano rinunciare a

      fargli  vedere  la fossa dei Leoni,  le stanze dei Gladiatori,  il

      Palco dei Cesari,  e salì per una scala  mezzo  rovinata,  facendo

      loro  continuare  il  metodico  giro,  si  assise all'ombra di una

      colonna,  dirimpetto ad una curva che  gli  permetteva  di  potere

      abbracciare  collo  sguardo  il  gigante  di marmo in tutta la sua

      estensione.  Franz era là  da  circa  un  quarto  d'ora,  nascosto

      dall'ombra della colonna,  ed occupato a guardare Alberto e coloro

      che gli portavano  le  torce;  uscivano  in  quel  momento  da  un

      romitorio posto all'altra estremità del Colosseo,  simili ad ombre

      che segnano un fuoco fatuo.  Discendevano di  scalino  in  scalino

      verso il luogo che era riservato alle Vestali, quando Franz sembrò

      udire  il  rumore  di  una pietra che si staccasse e cadesse dalla

      scala ch'egli pure aveva ascesa.

      Certo non è cosa rara sentir cadere una pietra che sotto  i  piedi

      del  tempo si stacca e va a rotolare nell'abisso;  ma questa volta

      gli sembrò fosse il piede di un uomo,  e che il rumore  dei  passi

      giungesse fino a lui,  sebbene chi li causava facesse di tutto per

      renderli impercettibili.

      Difatti, dopo un momento,  comparve un uomo,  uscendo gradatamente

      dall'ombra   mentre  saliva  la  scala  la  cui  apertura,   posta

      dirimpetto a Franz, era illuminata dalla luna.

      Poteva  essere  un  viaggiatore  come  lui,   che  preferiva   una

      meditazione  solitaria  al ciarlare insignificante delle guide,  e

      per conseguenza la sua comparsa nulla aveva  di  sorprendente;  ma

      all'esitazione  colla  quale salì gli ultimi scalini,  al modo con

      cui, giunto sul piano,  si fermò e parve mettersi in ascolto,  era

      evidente essere venuto là con qualche scopo.

      Per  un  movimento  istintivo  Franz si nascose quanto più potette

      dietro la colonna.  A dieci passi dal luogo ove  si  trovavano  la

      volta era diroccata,  e, da una apertura rotonda come quella di un

      pozzo, lasciava vedere il cielo tutto brillante di stelle.

      Attorno a  questa  apertura  che  forse  da  qualche  secolo  dava

      passaggio  ai  raggi  della  luna,  vegetavano dei cespugli il cui

      verde spiccava con vigore  sul  pallido  azzurro  del  firmamento,

      mentre  grandi  frasche  e  mazzi  di  ellera  pendevano da questa

      terrazza superiore,  e ondulavano sotto la volta a guisa di  corde

      flottanti.

      Il personaggio che aveva attirata l'attenzione di Franz era in una

      mezza  ombra  che non permetteva di distinguerne i tratti,  ma non

      abbastanza oscura per  impedirgli  di  vedere  i  particolari  del

      vestito.

      Era  avvolto  in un gran mantello scuro,  un lembo,  gettato sulla

      spalla sinistra,  gli copriva la parte inferiore del viso,  mentre

      un cappello a larghe tese copriva la parte superiore.  L'estremità

      del vestito era  illuminata  dai  raggi  obliqui  della  luna  che

      passavano  dall'apertura,  e  che  permettevano  di  distinguere i

      calzoni neri,  che elegantemente finivano su un paio di stivali di

      pelle lucida.

      Quest'uomo  apparteneva  evidentemente  se  non  all'aristocrazia,

      almeno alla buona società.

      Erano già trascorsi alcuni minuti da che era là,  e già cominciava

      a  dare  qualche  segno  d'impazienza,  allorché si udì un piccolo

      rumore nella terrazza sovrapposta.  Nel  medesimo  punto  un'ombra

      intercettò la luce,  un uomo apparve all'orlo dell'apertura, gettò

      uno sguardo penetrante nelle tenebre,  e vide l'uomo del mantello,

      che,  reggendosi  ad  un  pugno  di  quelle frasche e di quei rami

      d'ellera ondulante, si lasciò scivolare, e, giunto a tre o quattro

      piedi dal suolo, saltò leggermente a terra.

      Questi era interamente vestito da trasteverino.

      "Scusatemi,  Eccellenza,  se  vi  ho  fatto  aspettare"  disse  in

      dialetto romano, "però non sono in ritardo che di pochi minuti; le

      dieci sono suonate or ora a San Giovanni in Laterano."

      "Sono stato io che sono venuto prima, e non voi che avete tardato"

      rispose lo straniero nel più puro toscano, "non facciamo cerimonie

      perché quand'anche mi aveste fatto aspettare,  sarei ben certo che

      sarebbe  stato  per  qualche  motivo  indipendente  dalla   vostra

      volontà."

      "Ed avete ragione,  Eccellenza, vengo da Castel Sant'Angelo, ed ho

      avuto tutte le difficoltà possibili per poter parlare a Beppe."

      "Chi è questo Beppe?"

      "Beppe è un impiegato delle prigioni al  quale  passo  un  piccolo

      compenso mensile per sapere ciò che succede in Castello."

      "Ah, ah, vedo che siete un uomo pieno di cautele, mio caro."

      "Che volete,  Eccellenza, non si sa ciò che può accadere: forse io

      pure sarò un giorno o l'altro preso nella rete,  come quel  povero

      Peppino,  ed  avrò io pure bisogno di un sorcio per rodere qualche

      maglia della mia prigione."

      "Alle corte, che avete saputo?"

      "Che martedì vi saranno due esecuzioni,  alle due del  pomeriggio,

      come è solito in certe ricorrenze particolari.  Uno dei condannati

      sarà impiccato: è  un  miserabile  che  ha  ucciso  quella  stessa

      persona  che  lo  aveva  allevato,   e  questi  non  merita  alcun

      interesse; l'altro sarà decapitato, e questi è il povero Peppino."

      "Che volete,  mio caro,  voi ispirate un terrore così  grande  non

      solo   al   governo   pontificio,   ma  agli  Stati  vicini,   che

      assolutamente si vuol dare un esempio."

      "Ma Peppino non faceva neppure  parte  della  mia  banda;  era  un

      povero  pastore  che  non  ha commesso altro delitto che quello di

      fornirci viveri."

      "E ciò lo fa vostro complice in piena regola.  Anzi vedete che gli

      usano  dei riguardi.  Invece di impiccarlo,  come faranno a voi se

      mai  vi   metteranno   le   mani   addosso,   si   contentano   di

      ghigliottinarlo.   E   vedete  bene  che  daranno  due  spettacoli

      differenti."

      "Senza  contare  quello  che  gli  preparerò  io,  e  che  non  si

      aspettano" soggiunse il trasteverino.

      "Mio  caro,  permettetemi  di  dirvi  che  mi  sembrate  del tutto

      disposto a fare qualche sciocchezza."

      "Sono disposto a far di tutto per impedire  l'esecuzione  di  quel

      povero diavolo,  che si trova nell'impiccio per avermi servito. Mi

      terrei per un vile,  se non facessi qualche cosa per questo  bravo

      giovane."

      "E che fareste?"

      "Metterò  una  ventina di uomini intorno al patibolo,  e quando vi

      verrà condotto, ad un segnale che darò,  ci slanceremo col pugnale

      alla mano sulla scorta, e lo porteremo via."

      "Questa  è  una  cosa  troppo  incerta,  ed  io ritengo che il mio

      disegno sia migliore del vostro."

      "E qual è il disegno di Vostra Eccellenza?"

      "Farei in modo  di  parlare  ad  uno  che  conosco  pregandolo  di

      ottenere che l'esecuzione si differisca a quest'altro anno: quindi

      nel corso dell'anno tornerei a parlare con commovente eloquenza ad

      un altro tale che pure conosco, e lo farei evadere di prigione."

      "Siete sicuro della riuscita?"

      "Parbleu!" disse in francese l'uomo del mantello.

      "Che vuol dire?" domandò il trasteverino.

      "Vuol dire che farò più colle mie insinuanti macchinazioni che voi

      con tutta la vostra gente,  coi loro pugnali,  le loro pistole, le

      carabine ed i tromboni. Lasciatemi dunque fare."

      "A meraviglia!  Ma,  ricordatevi bene,  se non ci  riuscirete,  ci

      terremo sempre preparati."

      "Tenetevi sempre preparati,  se così vi piace,  ma siate certi che

      avrò la sua grazia."

      "Ricordatevi che martedì è dopo domani.  Voi non avete più che  il

      solo domani."

      "Sta   bene,   ma  un  giorno  si  compone  di  ventiquattro  ore,

      ciascun'ora  di  sessanta  minuti,   ciascun  minuto  di  sessanta

      secondi,   e   in   ottantaseimilaquattrocento  secondi  si  fanno

      moltissime cose."

      "Come sapremo se Vostra Eccellenza è riuscita?"

      "E' semplicissimo: ho preso in fitto le tre  ultime  finestre  del

      caffè Ruspoli,  se ho ottenuta la grazia,  le due finestre ai lati

      avranno un tappeto di damasco giallo,  e quella di mezzo  ne  avrà

      uno di damasco bianco con una croce rossa."

      "Sta benissimo. E da chi farete presentar la grazia?"

      "Inviatemi  uno dei vostri uomini travestito da confratello,  e la

      consegnerò  a  lui.  Mediante  questo  travestimento,  egli  potrà

      giungere fino ai piedi del patibolo, e rimetterà il foglio al capo

      della confraternita che lo passerà al carnefice.  Frattanto,  fate

      sapere questa notizia a Peppino,  che egli non abbia a  morire  di

      paura,  o  non abbia a divenir pazzo,  che sarebbe come farci fare

      un'opera buona inutilmente."

      "Ascoltate,  Eccellenza"  disse  il  trasteverino,   "io  vi  sono

      affezionato, ne siete convinto?"

      "Lo spero almeno."

      "Ebbene, se voi salvate Peppino, la mia non sarà più affezione, ma

      per l'avvenire sarà cieca obbedienza."

      "Ebbene,  fa' attenzione a ciò che dici, mio caro, forse un giorno

      avrò a ricordarti questo discorso e chissà che un giorno  io  pure

      abbia bisogno di te..."

      "Allora, Eccellenza, mi troverete nel momento del bisogno, come io

      avrò trovato voi;  foste anche all'altra estremità del mondo,  non

      avreste che a scrivermi "fate questo" ed io lo  farei  sulla  fede

      di..."

      "Zitto" disse lo sconosciuto, "sento del rumore."

      "Sono viaggiatori che visitano il Colosseo."

      "E'  inutile  che  ci  trovino  insieme.   Queste  spie  di  guide

      potrebbero riconoscervi,  e per quanto  sia  onorevole  la  nostra

      relazione,  pur  non  ostante  se  si  sapesse  che siamo uniti in

      amicizia,  questo legame  mi  farebbe  perdere  non  poco  il  mio

      credito."

      "E così, se voi avrete la grazia?..."

      "La finestra di mezzo avrà il tappeto bianco ed una croce rossa."

      "Se non la otterrete?..."

      "Tutte e tre le finestre saranno addobbate coi tappeti gialli."

      "E allora?..."

      "Allora,  menate il pugnale a vostro piacere, vi prometto di esser

      là per assistervi."

      "Addio, Eccellenza; conto su di voi, e voi contate su di me."

      A queste parole il trasteverino sparì  per  la  scala,  mentre  lo

      sconosciuto  coprendosi più che mai il viso col mantello,  passò a

      due passi da Franz e discese nell'arena per la gradinata esterna.

      Un minuto dopo,  Franz intese il proprio nome ripetersi  sotto  le

      volte:  era Alberto che lo chiamava.  Aspettò per rispondere che i

      due interlocutori si fossero allontanati,  non volendo si  sapesse

      esservi stato un testimonio,  il quale, se non aveva veduti i loro

      volti non aveva però perduto una parola della loro  conversazione.

      Dieci  minuti  dopo Franz percorreva la strada per andare a piazza

      di Spagna, ascoltando distratto la dotta dissertazione che Alberto

      faceva, dietro la testimonianza di Plinio e Calpurnio,  sulle reti

      guarnite  di  punte di ferro che impedivano agli animali feroci di

      slanciarsi sugli spettatori.

      Egli lo lasciò discorrere senza contraddirlo;  aveva troppa fretta

      di  trovarsi  solo,  per  pensare  senza  distrazione a quanto era

      avvenuto vicino a lui.

      Di questi due uomini l'uno certamente  era  italiano,  ed  era  la

      prima  volta  che  lo  vedeva  e  lo  sentiva,  ma  non  era  così

      dell'altro, e quantunque Franz non ne avesse distinte le forme del

      viso,  sempre nascoste nell'ombra o  nel  mantello,  l'accento  di

      questa  voce  lo  aveva  troppo colpito la prima volta che l'aveva

      intesa,  perché potesse mai  più  risuonare  a  lui  vicino  senza

      riconoscerla.

      Vi era,  particolarmente nelle intonazioni ironiche,  qualche cosa

      di stridulo e di metallico, che lo aveva fatto rabbrividire fra le

      rovine del Colosseo, non meno che nella grotta di Montecristo; per

      cui era ben convinto che fosse Sindbad il marinaio.

      In  tutt'altra  congiuntura,   la  curiosità  che   gli   ispirava

      quest'uomo  sarebbe  stata  così  grande,  che  si  sarebbe  fatto

      riconoscere;  ma in questa occasione,  la conversazione che  aveva

      intesa  era troppo intima per non essere trattenuto dal timore che

      una sua comparsa  non  sarebbe  stata  gradita.  Lo  aveva  dunque

      lasciato allontanare,  come si è veduto,  ma ripromettendosi se lo

      avesse incontrato un'altra volta,  di non lasciarsi  sfuggire  una

      seconda occasione.

      Franz era troppo preoccupato per potere dormire bene.  La notte fu

      impiegata a passare e ripassare tutte le più minute  particolarità

      che   avevano  relazione  con  l'uomo  della  grotta,   e  con  lo

      sconosciuto  del  Colosseo;  e  più  Franz  ci  pensava,   più  si

      convinceva della sua opinione.

      Si addormentò sul far del giorno, si svegliò molto tardi.

      Alberto,  da  vero parigino,  aveva già le sue mire per la serata.

      Aveva mandato a cercare un palco al teatro Argentina.  Franz aveva

      molte  lettere  da  scrivere  in Francia,  e lasciò la carrozza ad

      Alberto per tutta la giornata.

      Alle cinque questi  ritornò;  aveva  già  portate  le  lettere  di

      raccomandazione,   ricevuto  inviti  per  tutte  le  conversazioni

      serali, e veduto Roma.

      Un giorno era bastato ad Alberto per far tutto  questo,  ed  aveva

      anche  avuto  il tempo di informarsi dell'opera che si cantava,  e

      degli attori che la eseguivano.

      L'opera s'intitolava Parisina; gli attori erano Cosselli,  Moriani

      e  la Spech.  I nostri due giovani non erano disgraziati,  come si

      vede,  avrebbero sentita la musica di  una  delle  migliori  opere

      dell'autore della Lucia di Lammermoor, cantata dai tre artisti più

      rinomati  d'Italia.  Alberto  non  aveva  mai  potuto abituarsi ai

      teatri oltramontani,  nell'orchestra  dei  quali  non  è  permesso

      andare  e  che  non  hanno né palchi,  né logge scoperte;  ciò era

      penoso per un uomo che aveva il suo posto agli Italiani,  e  nella

      loggia infernale all'Opéra.

      Ciò  però  non  gl'impediva  di  vestirsi con accuratezza tutte le

      volte che andava a teatro con Franz,  toilettes sprecate,  perché,

      bisogna confessarlo a vergogna di uno dei rappresentanti più degni

      del  nostro  "bonton",  in  quattro mesi che viaggiava l'Italia in

      tutti i sensi, non aveva avuta ancora alcuna avventura.

      Alberto qualche volta cercava di scherzare su questo argomento; ma

      nel fondo del cuore era  grandemente  mortificato,  egli,  Alberto

      Morcerf,  uno  dei  giovani  più intraprendenti,  non aveva ancora

      fatta alcuna conquista.  La cosa era  tanto  più  penosa,  perché,

      secondo  l'abituale modestia dei nostri cari compatrioti,  Alberto

      era partito da Parigi con la ferma convinzione di avere in  Italia

      il  più  felice  successo,  e di ritornare a formar la delizia del

      Bastione di Gand col racconto delle sue avventure.

      Ahimè!  non ne aveva avuta alcuna: le graziose contesse  genovesi,

      fiorentine e napoletane si erano conservate per i loro mariti, per

      i loro amanti,  ed Alberto aveva acquistata la crudele convinzione

      che le italiane sanno essere almeno fedeli.  Anche se  non  voglio

      dire che in Italia, come in ogni altro luogo, non vi siano le loro

      eccezioni.   Eppure  Alberto  non  era  solo  un  cavaliere  molto

      elegante, ma aveva anche dello spirito; in più, era visconte, e di

      nobiltà recente,  è vero,  ma oggi  che  importa,  se  la  propria

      nobiltà  porta  la  data  del  1393 o del 1815?  Oltre tutto aveva

      cinquantamila lire di rendita;  e questo è  molto  più  di  quanto

      bisogna  per essere un giovane alla moda in Parigi.  Era dunque un

      poco umiliante non essere stato  ancora  seriamente  osservato  da

      alcuna signora nelle città in cui aveva soggiornato.

      Ma aveva stabilito di vendicarsi nel carnevale,  essendo questo un

      tempo di libertà in tutti i paesi della terra in cui è  introdotta

      questa  istituzione,  e  nella  quale anche i più stoici cadono in

      qualche follia.

      Ora,  siccome il carnevale  si  apriva  il  giorno  appresso,  era

      necessario che Alberto facesse conoscere il suo programma prima di

      quest'apertura.

      Alberto  dunque,  con  questa  idea,  aveva preso in fitto uno dei

      palchi  più  esposti,   e  prima  di  andarci  fece  una  toilette

      irreprensibile. Era al primo ordine, e del resto le tre prime file

      di palchi sono ugualmente ed indistintamente aristocratiche, e per

      questo si chiamano gli ordini nobili.  Questo palco,  nel quale si

      poteva stare in dodici senza pigiarsi,  era costato molto meno che

      non sarebbero costati quattro posti in una loggia dell'"Ambigu".

      Alberto  aveva ancora un'altra speranza,  ed era che se giungeva a

      prendere un posto nel  cuore  di  qualche  bella  romana,  ciò  lo

      avrebbe  naturalmente  condotto anche a conquistare un Posto nella

      carrozza.  e per conseguenza a vedere il Corso  dall'alto  di  una

      carrozza aristocratica o da una finestra principesca.

      Tutte   queste  considerazioni  lo  tenevano  dunque  in  continuo

      movimento.

      Egli volgeva le spalle agli attori,  sporgeva per metà  fuori  del

      palco  guardando  le più belle donne con un cannocchiale lungo sei

      pollici, cosa che non sollecitava alcuna signora a ricompensare di

      un solo sguardo, anche di semplice curiosità, tutti i movimenti di

      Alberto.

      Difatti ciascuna parlava dei suoi affari,  dei suoi  piaceri,  del

      carnevale che cominciava l'indomani, senza fare attenzione né agli

      attori, né alla musica, ad eccezione dei momenti in cui si volgeva

      verso  il palcoscenico per sentire un recitativo di Cosselli,  per

      applaudire a qualche bella nota del  Moriani,  per  gridare  brava

      alla Spech. Indi le particolari conversazioni riprendevano il loro

      corso abituale.

      Verso  la  fine  del  secondo  atto  si  aprì la porta di un palco

      rimasto vuoto fino allora,  e Franz vide entrarvi una persona alla

      quale  aveva  avuto  l'onore di essere stato presentato a Parigi e

      che credeva ancora in Francia.  Alberto vide il movimento che fece

      il suo amico a questa comparsa, e volgendosi a lui:

      "Conoscete forse quella signora?" disse.

      "Sì, che ve ne pare?"

      "Graziosa,  mio caro;  è bionda. Oh, che capelli adorabili! E' una

      francese?"

      "No, è veneziana."

      "Come si chiama?"

      "La contessa G."

      "Oh, io la conosco di nome" esclamò Alberto, "dicono che sia tanto

      spiritosa quanto è bella. Per Bacco, avrei potuto farmi presentare

      a lei a Parigi  all'ultimo  ballo  della  Villefort,  e  non  l'ho

      avvicinata, sono un grande stupido!"

      "Volete che ripari a questo torto?" domandò Franz.

      "Come!  voi  la  conoscete con abbastanza intimità per presentarmi

      nel suo palco?"

      "Non ho avuto l'onore che di parlarle tre o quattro volte in  vita

      mia,   ma  a  tutto  rigore  ciò  basta  per  non  commettere  una

      sconvenienza."

      In questo momento la contessa riconobbe Franz,  e colla  mano  gli

      fece  un  grazioso cenno,  al quale egli rispose con un rispettoso

      inchino di testa.

      "Mi sembra che siate molto nelle sue grazie!" disse Alberto.

      "Ecco ciò che inganna,  e a noi francesi farà  fare  sempre  mille

      sciocchezze  all'estero:  sottomettere  tutto  ai  punti  di vista

      parigini. Nella Spagna, e soprattutto in Italia, non giudicate mai

      della intimità delle persone, dalla libertà dei rapporti.  Io e la

      contessa ci troviamo simpatici, ed ecco tutto."

      "Simpatici di cuore?" domandò ridendo Alberto.

      "No, di spirito..." rispose seriamente Franz.

      "Ed in quale occasione?"

      "Nell'occasione  di  una passeggiata al Colosseo,  come quella che

      abbiamo fatta insieme."

      "Al chiaro di luna?"

      "Sì."

      "Soli?"

      "Quasi."

      "Ed avete parlato?..."

      "Di morti."

      "Ah, doveva essere una cosa assai piacevole.  Ebbene,  vi prometto

      che se avrò la fortuna di essere il cavaliere della bella contessa

      in una simile passeggiata, non le parlerò che dei vivi."

      "E forse farete male."

      "Frattanto, presentatemi alla contessa, come mi avete promesso."

      "Subito, non appena sarà calato il sipario."

      "Quanto è lungo questo diavolo di primo atto!"

      "Ascoltate   il  finale,   è  bellissimo,   e  Cosselli  lo  canta

      mirabilmente."

      "Sì, ma che portamento!"

      "Non si può essere però più drammatici della Spech."

      "Quando si è intesa la Sontang e la Malibran..."

      "Non trovate eccellente il metodo di Moriani?"

      "A me non piacciono i bruni che cantano biondo."

      "Ah, mio caro" disse Franz volgendosi, mentre Alberto continuava a

      puntare il suo cannocchiale,  "in verità siete molto  difficile  a

      contentare."

      Finalmente  calò  il sipario con grande soddisfazione del visconte

      di Morcerf,  che prese il cappello,  dette colla mano un'assestata

      ai capelli,  alla cravatta,  ai polsini,  e fece osservare a Franz

      ch'egli aspettava.

      Siccome la contessa,  che Franz interrogava con  lo  sguardo,  gli

      aveva fatto un segno impercettibile cogli occhi, per fargli capire

      che  sarebbe  stato  il benvenuto,  così non tardò a soddisfare la

      premura di Alberto,  e mentre faceva il  giro  del  corridoio,  il

      compagno  ne  approfittava  per  accomodare  le  false  pieghe sul

      colletto della camicia,  e sui rovesci dell'abito.  Batterono alla

      porta  del  numero  4,  che  era il palco occupato dalla contessa.

      Subito il giovane,  che sedeva a lato della contessa  sul  davanti

      del palco,  si alzò cedendo il posto, secondo il costume italiano,

      al nuovo arrivato,  che deve cederlo  a  sua  volta  quando  entra

      un'altra visita.

      Franz presentò Alberto alla contessa come uno dei giovani parigini

      più  distinti  per  la sua posizione sociale,  per il suo spirito,

      cosa d'altra parte vera,  perché a Parigi e  nel  circolo  in  cui

      viveva Alberto era ritenuto un cavaliere irreprensibile.  Aggiunse

      che afflitto di non aver potuto approfittare del  soggiorno  della

      contessa a Parigi per farsi presentare a lei,  lo aveva incaricato

      di riparare a questo errore, missione della quale si disimpegnava,

      pregando la contessa, presso la quale aveva bisogno egli stesso di

      un introduttore, di perdonare la sua indiscrezione.

      La contessa rispose  facendo  un  grazioso  saluto  ad  Alberto  e

      stendendo la mano a Franz. Invitato da lei, Alberto prese il posto

      rimasto  vuoto sul davanti,  e Franz si sedette nella seconda fila

      presso la contessa.

      Alberto aveva ritrovato un eccellente argomento di  conversazione:

      Parigi; parlava alla contessa delle loro comuni conoscenze.

      Franz  capì  che  era  sul  terreno  che gli conveniva,  lo lasciò

      parlare,   e  chiestogli  il  gigantesco  cannocchiale,   si  mise

      anch'egli ad esplorare il teatro.

      Sola,  sul davanti di un palco al terz'ordine di faccia, c'era una

      donna molto bella,  con un costume alla greca,  portato con  tanta

      disinvoltura, che si capiva essere quello il suo vestito abituale.

      Dietro  ad essa,  nell'ombra,  si delineava la forma di un uomo di

      cui era impossibile distinguere il viso.

      Franz interruppe la conversazione di Alberto con la  contessa  per

      chiedere a quest'ultima se conosceva la bella albanese tanto degna

      di  attirare  l'attenzione  non solo degli uomini,  ma anche delle

      donne.

      "No" disse lei,  "tutto ciò che so,  è che si  trova  a  Roma  dal

      principio  della  stagione;  perché  all'apertura  del teatro l'ho

      vista  dove  è  ora,   e  da  un  mese  non  è  mancata   ad   una

      rappresentazione,  ora  accompagnata  dall'uomo  con lei in questo

      momento, ora semplicemente seguita da un domestico moro."

      "Come la trovate, contessa?"

      "Estremamente bella. Medora doveva rassomigliare a questa donna."

      Franz e la contessa si scambiarono un sorriso,  poi questa riprese

      il  dialogo  con  Alberto,  e  Franz  seguitò  a  fissare la bella

      albanese.

      Il sipario si alzò per la rappresentazione del ballo.  Era uno dei

      buoni  balli italiani,  messo in scena dal famoso Henry,  che come

      coreografo, si era fatta in Italia una reputazione colossale,  che

      poi il disgraziato perse al Teatro Nautico,  per uno di quei balli

      ove dal primo personaggio all'ultima comparsa tutti  prendono  una

      parte  attiva  all'azione,  e  centocinquanta  persone fanno nello

      stesso tempo lo stesso gesto,  ed alzano o il medesimo braccio,  o

      la medesima gamba.

      Questo ballo era intitolato Dorliska.

      Franz  era  troppo  preoccupato  della sua bella greca per potersi

      occupare del ballo.

      Quanto a lei,  prendeva un manifesto piacere a questo  spettacolo,

      piacere che formava una singolare opposizione con la noncuranza di

      colui che l'accompagnava,  e che durante tutta la rappresentazione

      coreografica non fece un movimento,  sembrando  che  in  mezzo  al

      rumore  infernale  che  facevano  le trombe,  i cembali e i piatti

      cinesi in orchestra,  egli godesse le celestiali  dolcezze  di  un

      sonno pacifico.

      Finalmente  il  ballo  terminò,  ed  il sipario calò in mezzo agli

      applausi frenetici di una platea entusiasta.

      Per quest'abitudine di separare col ballo i due  atti  dell'opera,

      gl'intermezzi  fra  un atto e l'altro sono cortissimi in Italia: i

      cantanti hanno tutto il tempo  di  riposarsi  e  di  fare  i  loro

      travestimenti mentre i ballerini eseguono le loro danze.

      L'introduzione del secondo atto cominciò.

      Franz  vide  che,  ai primi colpi d'archetto,  il dormiente andava

      alzandosi lentamente, e si avvicinava alla greca, che si volse per

      dirgli qualche parola,  quindi tornò ad appoggiarsi al davanti del

      palco.  La figura dell'interlocutore si teneva sempre fra l'ombra,

      e Franz non poteva distinguere i tratti del volto.

      Rialzato  il  sipario,   gli  attori  attirarono   necessariamente

      l'attenzione  di  Franz;  gli  occhi  lasciarono per un momento il

      palco della bella greca per andare verso la scena.

      Il secondo atto,  come ognuno sa,  comincia col duetto del  sogno:

      Parisina,  dormendo,  lascia sfuggire, davanti ad Azzo, il segreto

      del suo amore per Ugo.  Lo sposo tradito passa per tutti i  furori

      della gelosia, fino a che, convinto dell'infedeltà della sposa, la

      sveglia  per  annunziarle la vicina vendetta.  Questo duetto è uno

      dei più belli, dei più espressivi,  dei più terribili usciti dalla

      penna di Donizetti.

      Franz lo sentiva per la terza volta, e quantunque non passasse per

      un melomaniaco arrabbiato, produsse su di lui un effetto profondo.

      Stava  per  congiungere  i  suoi  applausi  a quelli del pubblico,

      allorché le sue mani rimasero sospese in  aria,  ed  i  bravi  che

      stavano per uscirgli di bocca, si estinsero sulle labbra.

      L'uomo  del  palco  si  era  alzato in piedi e la sua testa veniva

      rischiarata dalla luce:  Franz  riconobbe  in  lui  il  misterioso

      abitante  di  Montecristo,  quello  che  la  sera  innanzi gli era

      sembrato di aver individuato fra le rovine del Colosseo.

      Non c'era più dubbio, lo strano viaggiatore era a Roma.

      Senza fallo,  la fisonomia di Franz era in armonia col  turbamento

      che gettava nel suo spirito quest'apparizione,  poiché la contessa

      lo guardò, scoppiò in una risata, e gli chiese ciò che avesse.

      "Signora contessa" rispose Franz,  "poco fa  vi  ho  domandato  se

      conoscevate quella donna albanese: ora vi domando se conoscete suo

      marito."

      "Niente più di lei!" rispose la contessa.

      "L'avete mai osservato?"

      "Ecco una domanda alla francese!  Sapete bene che per noi italiane

      non c'è altro uomo al mondo se non quello che amiamo!"

      "E' giusto!" rispose Franz.

      "In ogni modo" disse lei applicando ai suoi occhi il  cannocchiale

      di  Alberto,  e  dirigendolo  verso  il palco,  "lui dev'essere un

      qualche  dissotterrato,  qualche  morto  uscito  dalla  tomba  col

      permesso dei becchini, poiché mi sembra spaventosamente pallido."

      "E' sempre così..." rispose Franz.

      "Voi  dunque  lo conoscete?" domandò la contessa.  "Allora sono io

      che vi domando chi è?"

      "Credo di averlo veduto altre volte, e mi sembra di riconoscerlo."

      "Infatti" disse lei,  facendo un movimento colle sue belle  spalle

      come se un brivido le percorresse le vene,  "capisco che quando un

      tal uomo si è visto una volta, non si dimentica più."

      L'effetto che Franz aveva provato non  era  dunque  un'impressione

      particolare, perché un altro l'aveva risentita al pari di lui.

      "Ebbene!"  domandò allora alla contessa,  dopo che l'ebbe guardato

      una seconda volta, "che pensate di quell'uomo?"

      "A me sembra che sia lord Ruthwen in carne ed ossa."

      Infatti questo nuovo ricordo di Byron  colpì  Franz;  se  qualcuno

      poteva fargli credere l'esistenza dei vampiri, era quest'uomo.

      "Bisogna ch'io sappia chi è..." disse Franz alzandosi.

      "Oh,  no" gridò la contessa,  "no,  non mi lasciate! Ho contato su

      voi per accompagnarmi a casa, ed ora vi trattengo."

      "Come,  veramente" le disse  Franz,  accostandosele  all'orecchio,

      "avete paura?"

      "Ascoltate"  disse  lei,  "Byron  mi  ha  giurato  che  credeva ai

      vampiri, mi ha assicurato di averne veduti, e me ne ha descritti i

      loro visi; ebbene, assomigliano perfettamente a quell'uomo là, con

      i capelli neri, grandi occhi brillanti di una strana fiamma,  quel

      pallore mortale; poi aggiungete che non è con una donna come tutte

      le altre,  è con una straniera...  una greca...  una scismatica...

      senza dubbio con una maga al  par  di  lui...  Ve  ne  prego,  non

      partite. Domani vi metterete sulle sue tracce, se così vi aggrada,

      ma questa sera vi ritengo impegnato."

      Franz insistette.

      "Ascoltate"  disse  lei  alzandosi,  "io  me  ne  vado,  non posso

      fermarmi sino alla fine dello spettacolo,  perché ho gente in casa

      che  mi  aspetta...  Sarete così poco galante da negarmi la vostra

      compagnia?"

      Franz non aveva altra risposta a dare che  prendere  il  cappello,

      aprire la porta, e presentare il braccio alla contessa.

      E questo fece. La contessa era veramente molto commossa: lo stesso

      Franz non poteva sfuggire ad un certo terrore superstizioso, tanto

      più  naturale  in  quanto  nella  contessa  era il prodotto di una

      sensazione distinta, ed in lui il risultato di strani ricordi.

      Nel salire in carrozza sentì che la contessa tremava.

      La ricondusse fino a casa: non era vero  che  era  attesa,  gliene

      fece perciò dei rimproveri.

      "In verità" disse lei,  "non mi sento bene, ed ho bisogno di esser

      sola, la vista di quell'uomo mi ha sconvolta."

      Franz fece atto di ridere.

      "Non ridete" gli disse  lei,  "d'altra  parte,  non  ne  avete  la

      volontà. Promettetemi una cosa..."

      "E quale?"

      "Promettetela."

      "Tutto  quel  che vorrete,  eccetto di rinunziare a scoprire chi è

      quell'uomo.  Ho dei motivi che non posso dirvi per  desiderare  di

      sapere chi sia, donde venga e dove vada."

      "Donde  venga  non lo so,  ma dove vada,  ve lo posso dire a colpo

      sicuro: va all'inferno."

      "Ritorniamo alla promessa che volevate da me."

      "Ah,  si tratta di tornare direttamente all'albergo e  cercare  di

      non  veder questa sera quell'uomo.  Vi è una certa affinità fra le

      persone che si lasciano e quelle che si raggiungono;  non vogliate

      servire  di tramite fra quell'uomo e me.  Domani corretegli dietro

      come più vi aggrada,  ma non me lo presentate mai,  se non  volete

      vedermi morire di paura.  Dopo ciò,  buona sera; cercate di dormir

      bene, quanto a me, sento che non dormirò!"

      A queste parole la contessa si  allontanò  da  Franz,  lasciandolo

      irresoluto,  nel dubbio se si era divertita alle sue spalle,  o se

      aveva veramente sentita la paura espressa.

      Ritornando all'albergo,  Franz ritrovò Alberto in veste da camera,

      con  larghi  calzoni e voluttuosamente disteso sopra una poltrona,

      fumando un sigaro.

      "Ah, siete voi" disse, "non vi aspettavo che domattina."

      "Mio caro Alberto" rispose Franz, "colgo l'occasione di dirvi, una

      volta per  sempre,  che  avete  la  più  falsa  idea  delle  donne

      italiane;  mi  sembra  pertanto  che  le  vostre sconfitte amorose

      avrebbero dovuto farvela perdere."

      "Che volete, non c'è niente da capire con questi diavoli di donne:

      vi danno la mano,  ve  la  stringono,  vi  parlano  a  bassa  voce

      all'orecchio, si fanno accompagnare a casa; con la quarta parte di

      tal congegno una parigina perderebbe la sua reputazione."

      "Eh,  questo  accade  precisamente,  perché  non  hanno  nulla  da

      nascondere, perché vivono in pieno giorno,  ecco,  perché le donne

      usano tanti pochi riguardi nel bel paese là dove il sì suona, come

      dice  Dante.  D'altra  parte,  vedeste bene,  la contessa ha avuto

      veramente paura."

      "Paura di che?  Di quell'onest'uomo di faccia  a  noi  con  quella

      bella greca?  Ho voluto vederci chiaro quando sono usciti,  e sono

      andato loro incontro nel corridoio.  Non  so  dove  diavolo  avete

      prese  tutte  le  vostre  idee dell'altro mondo!  E' un bellissimo

      giovane molto elegante,  e gli abiti hanno l'aspetto d'esser fatti

      in Francia da Blin o da Humann.  E' un po' pallido, è vero, ma voi

      sapete che il pallore è un marchio di distinzione."

      Franz sorrise, perché Alberto aveva la pretesa d'esser pallido.

      "Io pure" disse Franz,  "sono convinto che le idee della  contessa

      su  quest'uomo siano prive di buon senso.  Ha parlato vicino a voi

      ed avete udita qualcuna delle sue parole?"

      "Ha parlato,  ma in dialetto;  ho riconosciuto l'idioma e  qualche

      parola  greca sfigurata.  Bisogna che sappiate,  mio caro,  che in

      collegio ero molto valente in greco."

      "Parlava dunque un dialetto greco."

      "E' probabile."

      "Non vi è dubbio" mormorò Franz, "è lui."

      "Che dite?..."

      "Niente... Ma che facevate voi là?"

      "Vi preparavo una sorpresa."

      "Quale?"

      "Sapete che è impossibile ritrovare una carrozza?"

      "Per Bacco!  dopo che abbiamo tentato tutto ciò che era umanamente

      possibile fare..."

      "Ebbene, ho un'idea meravigliosa."

      Franz  guardò  Alberto,  come  non  avesse  gran fiducia nella sua

      immaginazione.

      "Mio caro" disse Alberto,  "mi onorate di uno  sguardo  tale,  che

      meriterebbe vi domandassi soddisfazione."

      "Sono disposto a darvela, amico mio, se la vostra idea è ingegnosa

      quanto dite."

      "Ascoltate."

      "Ascolto."

      "Non c'è mezzo di procurarsi una carrozza?"