"Sì" soggiunse la ragazza, la cui meraviglia aumentava ad ogni
parola di Luigi, "ma tu certamente hai risposto così solo per
farmi piacere."
"Non ti ho mai promesso cosa che non ti abbia data, Teresa" disse
con orgoglio Luigi, "entra nella grotta, e vestiti."
A queste parole allontanò la pietra, e fece vedere a Teresa la
grotta illuminata da due candele, che ardevano ai lati di un
magnifico specchio. Sopra una tavola rustica fatta da Luigi, erano
distesi gli spilli di diamanti e la collana di perle; sopra una
panca vicina era depositato il rimanente del vestiario.
Teresa mandò un grido di gioia, e senza informarsi donde veniva
questo vestito, senza ringraziare Luigi, si lanciò nella grotta
trasformata in toilette.
Luigi richiuse la pietra dietro di lei, perché s'accorse che sulla
cresta di una piccola collina, che impediva di vedere Palestrina
dal posto in cui stava, un viaggiatore a cavallo si era fermato,
incerto sulla strada da tenere, e compariva nell'azzurro del cielo
con quella nettezza di contorno tipica dei paesi meridionali.
Lo straniero, vedendo Luigi, mise il cavallo a galoppo, e venne
alla sua volta.
Luigi non si era ingannato: il viaggiatore che andava da
Palestrina a Tivoli era incerto sul cammino da prendere. Il
giovane glielo indicò; ma siccome ad un quarto di miglio la strada
si divideva in tre, e il viaggiatore, giunto a questo luogo poteva
nuovamente sbagliare, pregò Luigi di servirgli da guida. Questi
depose a terra il mantello, si pose sulla spalla la carabina, e
liberato così dal pesante vestito, camminò davanti al viaggiatore
con quel passo rapido del montanaro, che un cavallo a stento può
seguire.
In dieci minuti Luigi e il viaggiatore si trovarono al crocicchio
indicato dal giovane pastore: con un gesto maestoso stese la mano
e indicò al viaggiatore quella delle tre vie che doveva seguire.
"Ecco la vostra strada Eccellenza, ora non potete più sbagliare."
"E tu prendi la tua ricompensa..." disse il viaggiatore offrendo
al pastore alcune piccole monete.
"Grazie" disse Luigi ritirando la mano, "ma io rendo un servizio,
non lo vendo."
"Ma" disse il viaggiatore, abituato a quella differenza che passa
tra la servilità dell'uomo di città e l'orgoglio del campagnolo,
"se tu rifiuti una mercede, accetterai un regalo?"
"Ah! sì, questa è un altra cosa."
"Ebbene" disse il viaggiatore, "prendi questi due zecchini di
Venezia, e dalli alla tua fidanzata per acquistarsi un paio di
pendenti."
"E voi allora prendete questo pugnale" disse il pastore, "non ne
ritroverete uno, la cui impugnatura sia meglio intagliata, da
Albano a Civita Castellana."
"Lo accetto" disse il viaggiatore, "ma allora sono io che ti resto
obbligato, perché il pugnale vale molto più di due zecchini."
"Per un mercante può essere, ma non per me che l'ho intagliato io
stesso, e mi costa appena uno scudo."
"Come ti chiami?" domandò il viaggiatore.
"Luigi Vampa" rispose il pastore collo stesso tono come avesse
risposto Alessandro di Macedonia, "e voi?"
"Io" disse il viaggiatore, "mi chiamo Sindbad il marinaio..."
Franz d'Epinay ebbe un grido di sorpresa.
"Sindbad il marinaio!" disse.
"Sì" rispose il narratore, "è il nome che il viaggiatore disse a
Vampa."
"Ebbene, che avete da dire a questo nome?" interruppe Alberto. "E'
un bellissimo nome e le avventure di chi lo portava mi hanno
divertito assai nella mia prima gioventù."
Franz non insistette.
Il nome di Sindbad il marinaio, come si capirà bene, aveva
risvegliato in lui una quantità di ricordi, non diversamente da
quello che aveva fatto la sera innanzi il nome di conte di
Montecristo.
"Continuate..." disse all'albergatore.
"Vampa mise sdegnosamente i due zecchini in tasca, e riprese
lentamente il cammino per il quale era venuto. Giunto a due o
trecento passi dalla grotta gli parve di sentire un grido. Si
fermò ascoltando da qual parte venisse questo grido. Dopo un
secondo, intese pronunciare distintamente il suo nome; la voce
veniva dalla parte della grotta.
Balzò come un camoscio; e mentre correva, caricava il fucile, e in
meno di un minuto era sulla sommità della piccola collina opposta
a quella dove aveva intravisto il viaggiatore. Là si fecero più
distinte le grida: "Aiuto, soccorso!". Girò gli occhi sullo spazio
che dominava: un uomo rapiva Teresa come il centauro Nesso,
Deianira. Questo uomo che si dirigeva verso il bosco, aveva già
percorso tre quarti del cammino dalla grotta alla foresta.
Vampa misurò la distanza; quest'uomo aveva già duecento passi di
vantaggio su lui, non vi era possibilità di raggiungerlo prima che
entrasse nel bosco. Il giovane si fermò come se i suoi piedi
avessero messo radice: appoggiò l'incasso del fucile alla spalla,
levò lentamente la canna nella direzione del rapitore, lo seguì un
secondo nella corsa, e fece fuoco.
Il rapitore si fermò, come immobile nell'aria, le ginocchia gli si
piegarono, e cadde trascinando nella sua caduta Teresa, la quale
si alzò subito. L'altro restò steso dibattendosi nelle ultime
convulsioni dell'agonia. Vampa si slanciò verso Teresa, che era a
dieci passi dal moribondo, in ginocchio. Allora al giovane venne
il terribile sospetto che la pallottola che aveva colpito
l'avversario avesse ferita la fidanzata. Fortunatamente però non
fu così, e il solo terrore aveva paralizzato le forze di Teresa.
Quando Luigi fu ben sicuro che era sana e salva si volse verso il
ferito era già morto, colle pugna serrate, la bocca contratta dal
dolore, i capelli ritti dal sudore dell'agonia; gli occhi erano
rimasti aperti e minacciosi.
Vampa si avvicinò al cadavere e riconobbe Cucumetto. Dal giorno in
cui il bandito fu salvato dai due giovani si era innamorato di
Teresa, ed aveva giurato che la giovane sarebbe stata sua. Da quel
giorno, l'aveva spiata con assiduità; e profittando del momento in
cui il suo amante l'aveva lasciata sola per andare ad indicare la
strada al viaggiatore l'aveva rapita e già la credeva sua, quando
la pallottola di Vampa diretta dal colpo d'occhio infallibile del
giovane pastore, gli aveva traversato il cuore. Vampa lo guardò un
momento senza la minima emozione sul viso mentre Teresa, al
contrario, tutta tremante ancora, non osava avvicinarsi al bandito
morto che a piccoli passi, esitando uno sguardo sul cadavere al di
sotto della spalla del suo amante. Dopo un momento Vampa si
rivolse alla sua innamorata.
"Sta bene, tu sei già vestita. Ora tocca a me prepararmi."
Infatti Teresa era vestita da capo a piedi col costume della
figlia del conte di San Felice. Vampa prese il corpo di Cucumetto
fra le braccia, e lo trasportò nella grotta, mentre Teresa
l'aspettava fuori. Se fosse passato un altro viaggiatore, avrebbe
veduto una cosa strana, cioè una pastorella guardare il gregge,
vestita di cachemire coi pendenti alle orecchie, una collana di
perle degli spilli di diamanti, e dei bottoni di zaffiri, di
smeraldi e di rubini. Senza dubbio avrebbe creduto di tornare ai
tempi di Florian e di ritorno a Parigi, avrebbe assicurato di
avere incontrata la pastorella delle Alpi ai piedi dei monti
Sabini. Un quarto d'ora dopo, Vampa uscì dalla grotta. Il suo
costume non era meno elegante, nel suo genere di quello di Teresa.
Aveva una veste di velluto granato coi bottoni d'oro cesellati, un
giubbetto di seta tutto ricoperto di galloni, una sciarpa annodata
intorno al collo, un portacartucce tutto in oro ed in seta rossa e
verde, i pantaloni di velluto celeste attaccati al disotto del
ginocchio colle fibbie di diamanti le ghette di pelle di daino
ricamate con mille arabeschi, ed un cappello su cui sventolavano
dei nastri di ogni genere; due catene da orologio pendevano dalla
sua cintura ed un magnifico pugnale era attaccato al
portacartucce.
Teresa gettò un grido di ammirazione: Vampa sotto quest'abito
assomigliava ad una pittura di Leopoldo Robert o di Schnetz. Aveva
indossato il costume completo di Cucumetto. Il giovane s'accorse
dell'effetto che produceva sulla sua fidanzata, ed un sorriso di
orgoglio gli sfiorò le labbra.
"Ora dimmi, Teresa, sei pronta a dividere la mia sorte qualunque
essa possa essere?"
"Oh! sì" gridò la ragazza con entusiasmo.
"A seguirmi ovunque andrò?"
"Anche in capo al mondo."
"Allora prendi il mio braccio, e partiamo, poiché non abbiamo
tempo da perdere."
La pastorella intrecciò il suo al braccio dell'innamorato, senza
neppure domandargli dove la conduceva, perché in quel momento le
sembrava bello, superbo e potente. E tutti e due si incamminarono
verso la foresta di cui in breve tempo passarono il confine.
Non fa bisogno dire che Vampa conosceva tutti i sentieri della
montagna. S'inoltrò dunque nella foresta senza esitar neppure per
poco, e quantunque non vi fosse praticata alcuna strada,
riconosceva la direzione che doveva seguire dal solo guardare gli
alberi ed i cespugli. Camminarono in tal modo per circa un'ora e
un quarto.
Dopo giunsero nel punto più fitto del bosco. Un torrente il cui
letto era secco, conduceva in una gola profonda. Vampa prese
questo strano sentiero, che, incassato fra le due rive, e
ottenebrato dall'ombra degli alberi, sembrava il sentiero d'Averno
di cui parla Virgilio. Teresa, tornata timorosa all'aspetto di
questo luogo selvaggio e deserto si stringeva contro la guida
senza dir parola; ma siccome lo vedeva camminare con un passo
sempre uguale, e una calma sempre profonda era sul suo viso, lei
aveva la forza di dissimulare la sua emozione.
Subito, dieci passi lontano da loro, un uomo sembrò staccarsi da
un albero dietro cui era nascosto, e prendendo col suo fucile di
mira Vampa, gridò:
"Non fare un passo di più o sei morto."
"Andiamo via!" disse Vampa, facendo con la mano un gesto di
disprezzo, mentre Teresa non dissimulando il terrore, si stringeva
sempre più contro di lui. "I lupi forse si sbranano fra loro?"
"Chi sei tu?" domandò la sentinella.
"Sono Luigi Vampa, il pastore della fattoria dei San Felice.
"Che vuoi?"
"Voglio parlare ai tuoi compagni che sono sulla piana di Rocca-
Bianca.
"Allora seguimi" disse la sentinella, "o piuttosto, giacché sai la
strada cammina avanti."
Vampa sorrise con aria di disprezzo alla cautela di questo bandito
passò avanti con Teresa, e continuò il suo cammino collo stesso
passo fermo e tranquillo che lo aveva condotto fin là. Dopo cinque
minuti, il bandito fece loro segno di fermarsi. Essi obbedirono.
Il bandito imitò tre volte il grido del corvo, un altro grido
eguale rispose a questo triplice appello.
"Ora puoi continuare la strada" disse il bandito.
Luigi e Teresa si rimisero in cammino; ma, mentre s'inoltravano
Teresa tremante si serrava sempre più contro il suo amante;
infatti attraverso gli alberi si vedevano comparire degli uomini e
scintillare delle canne di fucile. L'altopiano di Rocca-Bianca era
sulla sommità di una piccola montagna, che doveva certamente
essere stata un piccolo vulcano estinto prima che Romolo e Remo
disertassero da Alba per andare a fondare Roma. Teresa e Luigi
giunsero alla sommità, e nello stesso tempo si trovarono
circondati da una ventina di banditi.
"Ecco un giovane che vi cerca, e desidera parlarvi" disse la
sentinella.
"Che vuole da noi?" chiese colui che in assenza del capo ne faceva
le provvisorie funzioni.
"Voglio dirvi che mi sono annoiato di fare il mestiere del
pastore" disse Vampa.
"Ah, capisco" disse il luogotenente, "e tu vieni a domandarci di
entrare nelle nostre file?"
"Che sia il benvenuto" gridarono molti banditi di Ferrusino, di
Pampinara e d'Anagni, i quali avevano riconosciuto Luigi Vampa.
"Sì, ma vengo a chiedervi un'altra cosa, oltre che esser vostro
compagno.
"E che vieni a chiederci?" dissero con meraviglia i banditi.
"Vengo a domandarvi di essere fatto vostro capitano" disse il
giovane.
I banditi dettero in una gran risata.
"E che hai fatto per aspirare a questo onore?" domandò il
luogotenente.
"Ho ammazzato il vostro capo Cucumetto, di cui porto le spoglie"
disse Luigi, "ed ho messo a fuoco la villa di San Felice per dare
il corredo di nozze alla mia fidanzata."
Un'ora dopo, Luigi Vampa era eletto capitano al posto di
Cucumetto."
"Ebbene, mio caro Alberto" disse Franz volgendosi all'amico, "che
pensate ora di questo cittadino Luigi Vampa?"
"Dico che questo è un mito" rispose Alberto, "e che non è mai
esistito."
"E che significa la parola mito?" domandò Pastrini.
"Sarebbe troppo lungo a spiegarsi, mio caro Pastrini" rispose
Franz.
"E voi dite che mastro Vampa esercita in questo momento la sua
professione in queste vicinanze?"
"E con un tale ardire che nessun bandito ne ha mai dato esempio
uguale."
"E la polizia non cerca d'impadronirsene?"
"Che volete? Egli è d'accordo ad un tempo coi pastori della
pianura, coi pescatori del Tevere e i contrabbandieri della costa.
Se si cerca nelle montagne, è sul fiume, se si insegue sul fiume,
prende l'alto mare; poi d'improvviso quando si crede che sia
rifugiato nell'isola del Giglio, di Gianutri, o di Montecristo, si
vede ricomparire in Albano, a Tivoli o alla Riccia."
"E qual è il suo modo di fare verso i viaggiatori?"
"Eh, mio Dio, è semplicissimo: a seconda della distanza dalla
città, accorda loro otto ore, dodici ore, un giorno, per pagare il
loro riscatto; quando è passato il tempo accorda un'ora di grazia.
Al sessantesimo minuto di quest'ora se non ha il riscatto, fa
saltare le cervella del prigioniero con un colpo di pistola, o gli
pianta un pugnale nel cuore, e tutto è finito!"
"Ebbene, Alberto" domandò Franz al suo compagno, "siete ancora
disposto ad andare al Colosseo per la strada fuori delle mura?"
"Certamente" disse Alberto, "se è la strada più pittoresca."
In questo momento batterono le nove, la porta si aprì, e il
cocchiere comparve.
"Eccellenza" disse, "la carrozza è alla porta."
"Ebbene" disse Franz, "andiamo al Colosseo."
"Per la porta del Popolo, Eccellenza, o per le strade esterne?"
"Per le strade interne, per Bacco!, per le strade interne" gridò
Franz.
"Ah, mio caro" disse Alberto alzandosi ed accendendo il suo terzo
sigaro, "in verità vi credevo più coraggioso!"
Dopo queste parole i due giovani discesero le scale e salirono in
carrozza.
Capitolo 34.
LE APPARIZIONI.
Franz aveva trovato una via di mezzo, perché Alberto potesse
giungere al Colosseo senza passare davanti ad alcuna rovina
antica, e per conseguenza senza nulla togliere alle gigantesche
proporzioni del Colosseo.
Proporre di passare per la via Sabina, voltare ad angolo retto
davanti a Santa Maria Maggiore e giungere per la via urbana e San
Pietro in Vincoli alla via del Colosseo. D'altra parte questo
itinerario offriva anche un altro vantaggio, quello di non
distrarre con altre impressioni Franz da quella prodotta in lui
dalla storia raccontata dal Pastrini, e nella quale vi si trovava
mischiato il suo anfitrione di Montecristo. Perciò si era
appoggiato col gomito nell'angolo, ed era ricaduto in quelle mille
domande che infinite volte aveva già fatte a se stesso, e alle
quali mai era riuscito a dare una risposta soddisfacente.
Un'altra cosa gli aveva ancora fatto sovvenire il suo amico
Sindbad il marinaio, ed era la relazione tra i banditi ed i
marinai. Ciò che aveva detto Pastrini sul rifugio che Vampa
trovava nelle barche dei pescatori e dei contrabbandieri,
ricordava a Franz quei due banditi corsi ch'egli aveva visto
cenare insieme all'equipaggio del piccolo yacht, che deviando a
bella posta dal suo cammino era approdato a Porto Vecchio col solo
scopo di metterli a terra.
Il nome che il suo ospite si dava di Conte di Montecristo,
pronunciato dall'albergatore dell'albergo Londra, provava che era
lo stesso che sosteneva la parte filantropica sulle coste di
Piombino, di Civitavecchia, d'Ostia e di Gaeta, come su quelle di
Corsica, di Toscana, di Spagna, non meno che su quelle di Tunisi e
di Palermo.
Era una prova che egli abbracciava una cerchia di relazioni molto
estesa.
Ma per quanto queste riflessioni fossero presenti allo spirito del
giovane, esse svanirono quando cominciò a farsi scorgere il tetro
e gigantesco spettro del Colosseo fra le cui rovine la luna faceva
passare quei lunghi e pallidi raggi, che sembra cadano dagli occhi
dei fantasmi. La carrozza si fermò a qualche passo dalla fontana
denominata "Meta sudans".
Il cocchiere aprì la portiera, i due giovani saltarono a terra, e
si trovarono in faccia ad un cicerone, che sembrava uscito di
sotto terra. Quello dell'albergo pure li aveva seguiti, e così ne
ebbero due.
Del resto è impossibile poter evitare a Roma questo lusso di
guide: oltre il cicerone generale che s'impadronisce di voi dal
momento che mettete il piede sulla porta di un albergo o di una
locanda, e che non vi abbandona che il giorno in cui mettete il
piede fuori della città, vi è pure un cicerone addetto a ciascun
monumento; si giudichi dunque se si può restar privi di cicerone
al Colosseo, vale a dire al monumento per eccellenza, che faceva
dire a Marziale: "Che Menfi cessi di vantare i barbari miracoli
delle sue piramidi, che cessino di essere vantate le meraviglie di
Babilonia, tutto deve annichilirsi davanti all'opera immensa
dell'anfiteatro dei Cesari, e tutte le voci della celebrità devono
unirsi per lodare questo monumento.
Franz ed Alberto non tentarono nemmeno di sottrarsi alla tirannide
ciceronica, molto più poi sarebbe stato difficile al Colosseo,
perché ivi le sole guide hanno il diritto di percorrere i diversi
punti praticabili del monumento, colle torce accese. Non fecero
dunque alcuna resistenza, e si abbandonarono anima e corpo ai loro
conduttori. Franz conosceva già questa passeggiata per averla
fatta dieci altre volte: ma siccome il suo compagno, più novizio,
metteva per la prima volta il piede nell'anfiteatro di Flavio
Vespasiano, debbo confessarlo a sua lode, nonostante il cicalare
ignorante delle guide, egli era commosso da vive impressioni. Non
è possibile, senza vederlo, formarsi un'idea della maestà di una
simile rovina, le cui proporzioni sono tutte raddoppiate dalla
misteriosa chiarezza di quella luna meridionale, i cui raggi
sembrano i crepuscoli d'occidente.
Il riflessivo Franz, fatti appena cento passi sotto i portici
interni, lasciò Alberto alle guide, che non volevano rinunciare a
fargli vedere la fossa dei Leoni, le stanze dei Gladiatori, il
Palco dei Cesari, e salì per una scala mezzo rovinata, facendo
loro continuare il metodico giro, si assise all'ombra di una
colonna, dirimpetto ad una curva che gli permetteva di potere
abbracciare collo sguardo il gigante di marmo in tutta la sua
estensione. Franz era là da circa un quarto d'ora, nascosto
dall'ombra della colonna, ed occupato a guardare Alberto e coloro
che gli portavano le torce; uscivano in quel momento da un
romitorio posto all'altra estremità del Colosseo, simili ad ombre
che segnano un fuoco fatuo. Discendevano di scalino in scalino
verso il luogo che era riservato alle Vestali, quando Franz sembrò
udire il rumore di una pietra che si staccasse e cadesse dalla
scala ch'egli pure aveva ascesa.
Certo non è cosa rara sentir cadere una pietra che sotto i piedi
del tempo si stacca e va a rotolare nell'abisso; ma questa volta
gli sembrò fosse il piede di un uomo, e che il rumore dei passi
giungesse fino a lui, sebbene chi li causava facesse di tutto per
renderli impercettibili.
Difatti, dopo un momento, comparve un uomo, uscendo gradatamente
dall'ombra mentre saliva la scala la cui apertura, posta
dirimpetto a Franz, era illuminata dalla luna.
Poteva essere un viaggiatore come lui, che preferiva una
meditazione solitaria al ciarlare insignificante delle guide, e
per conseguenza la sua comparsa nulla aveva di sorprendente; ma
all'esitazione colla quale salì gli ultimi scalini, al modo con
cui, giunto sul piano, si fermò e parve mettersi in ascolto, era
evidente essere venuto là con qualche scopo.
Per un movimento istintivo Franz si nascose quanto più potette
dietro la colonna. A dieci passi dal luogo ove si trovavano la
volta era diroccata, e, da una apertura rotonda come quella di un
pozzo, lasciava vedere il cielo tutto brillante di stelle.
Attorno a questa apertura che forse da qualche secolo dava
passaggio ai raggi della luna, vegetavano dei cespugli il cui
verde spiccava con vigore sul pallido azzurro del firmamento,
mentre grandi frasche e mazzi di ellera pendevano da questa
terrazza superiore, e ondulavano sotto la volta a guisa di corde
flottanti.
Il personaggio che aveva attirata l'attenzione di Franz era in una
mezza ombra che non permetteva di distinguerne i tratti, ma non
abbastanza oscura per impedirgli di vedere i particolari del
vestito.
Era avvolto in un gran mantello scuro, un lembo, gettato sulla
spalla sinistra, gli copriva la parte inferiore del viso, mentre
un cappello a larghe tese copriva la parte superiore. L'estremità
del vestito era illuminata dai raggi obliqui della luna che
passavano dall'apertura, e che permettevano di distinguere i
calzoni neri, che elegantemente finivano su un paio di stivali di
pelle lucida.
Quest'uomo apparteneva evidentemente se non all'aristocrazia,
almeno alla buona società.
Erano già trascorsi alcuni minuti da che era là, e già cominciava
a dare qualche segno d'impazienza, allorché si udì un piccolo
rumore nella terrazza sovrapposta. Nel medesimo punto un'ombra
intercettò la luce, un uomo apparve all'orlo dell'apertura, gettò
uno sguardo penetrante nelle tenebre, e vide l'uomo del mantello,
che, reggendosi ad un pugno di quelle frasche e di quei rami
d'ellera ondulante, si lasciò scivolare, e, giunto a tre o quattro
piedi dal suolo, saltò leggermente a terra.
Questi era interamente vestito da trasteverino.
"Scusatemi, Eccellenza, se vi ho fatto aspettare" disse in
dialetto romano, "però non sono in ritardo che di pochi minuti; le
dieci sono suonate or ora a San Giovanni in Laterano."
"Sono stato io che sono venuto prima, e non voi che avete tardato"
rispose lo straniero nel più puro toscano, "non facciamo cerimonie
perché quand'anche mi aveste fatto aspettare, sarei ben certo che
sarebbe stato per qualche motivo indipendente dalla vostra
volontà."
"Ed avete ragione, Eccellenza, vengo da Castel Sant'Angelo, ed ho
avuto tutte le difficoltà possibili per poter parlare a Beppe."
"Chi è questo Beppe?"
"Beppe è un impiegato delle prigioni al quale passo un piccolo
compenso mensile per sapere ciò che succede in Castello."
"Ah, ah, vedo che siete un uomo pieno di cautele, mio caro."
"Che volete, Eccellenza, non si sa ciò che può accadere: forse io
pure sarò un giorno o l'altro preso nella rete, come quel povero
Peppino, ed avrò io pure bisogno di un sorcio per rodere qualche
maglia della mia prigione."
"Alle corte, che avete saputo?"
"Che martedì vi saranno due esecuzioni, alle due del pomeriggio,
come è solito in certe ricorrenze particolari. Uno dei condannati
sarà impiccato: è un miserabile che ha ucciso quella stessa
persona che lo aveva allevato, e questi non merita alcun
interesse; l'altro sarà decapitato, e questi è il povero Peppino."
"Che volete, mio caro, voi ispirate un terrore così grande non
solo al governo pontificio, ma agli Stati vicini, che
assolutamente si vuol dare un esempio."
"Ma Peppino non faceva neppure parte della mia banda; era un
povero pastore che non ha commesso altro delitto che quello di
fornirci viveri."
"E ciò lo fa vostro complice in piena regola. Anzi vedete che gli
usano dei riguardi. Invece di impiccarlo, come faranno a voi se
mai vi metteranno le mani addosso, si contentano di
ghigliottinarlo. E vedete bene che daranno due spettacoli
differenti."
"Senza contare quello che gli preparerò io, e che non si
aspettano" soggiunse il trasteverino.
"Mio caro, permettetemi di dirvi che mi sembrate del tutto
disposto a fare qualche sciocchezza."
"Sono disposto a far di tutto per impedire l'esecuzione di quel
povero diavolo, che si trova nell'impiccio per avermi servito. Mi
terrei per un vile, se non facessi qualche cosa per questo bravo
giovane."
"E che fareste?"
"Metterò una ventina di uomini intorno al patibolo, e quando vi
verrà condotto, ad un segnale che darò, ci slanceremo col pugnale
alla mano sulla scorta, e lo porteremo via."
"Questa è una cosa troppo incerta, ed io ritengo che il mio
disegno sia migliore del vostro."
"E qual è il disegno di Vostra Eccellenza?"
"Farei in modo di parlare ad uno che conosco pregandolo di
ottenere che l'esecuzione si differisca a quest'altro anno: quindi
nel corso dell'anno tornerei a parlare con commovente eloquenza ad
un altro tale che pure conosco, e lo farei evadere di prigione."
"Siete sicuro della riuscita?"
"Parbleu!" disse in francese l'uomo del mantello.
"Che vuol dire?" domandò il trasteverino.
"Vuol dire che farò più colle mie insinuanti macchinazioni che voi
con tutta la vostra gente, coi loro pugnali, le loro pistole, le
carabine ed i tromboni. Lasciatemi dunque fare."
"A meraviglia! Ma, ricordatevi bene, se non ci riuscirete, ci
terremo sempre preparati."
"Tenetevi sempre preparati, se così vi piace, ma siate certi che
avrò la sua grazia."
"Ricordatevi che martedì è dopo domani. Voi non avete più che il
solo domani."
"Sta bene, ma un giorno si compone di ventiquattro ore,
ciascun'ora di sessanta minuti, ciascun minuto di sessanta
secondi, e in ottantaseimilaquattrocento secondi si fanno
moltissime cose."
"Come sapremo se Vostra Eccellenza è riuscita?"
"E' semplicissimo: ho preso in fitto le tre ultime finestre del
caffè Ruspoli, se ho ottenuta la grazia, le due finestre ai lati
avranno un tappeto di damasco giallo, e quella di mezzo ne avrà
uno di damasco bianco con una croce rossa."
"Sta benissimo. E da chi farete presentar la grazia?"
"Inviatemi uno dei vostri uomini travestito da confratello, e la
consegnerò a lui. Mediante questo travestimento, egli potrà
giungere fino ai piedi del patibolo, e rimetterà il foglio al capo
della confraternita che lo passerà al carnefice. Frattanto, fate
sapere questa notizia a Peppino, che egli non abbia a morire di
paura, o non abbia a divenir pazzo, che sarebbe come farci fare
un'opera buona inutilmente."
"Ascoltate, Eccellenza" disse il trasteverino, "io vi sono
affezionato, ne siete convinto?"
"Lo spero almeno."
"Ebbene, se voi salvate Peppino, la mia non sarà più affezione, ma
per l'avvenire sarà cieca obbedienza."
"Ebbene, fa' attenzione a ciò che dici, mio caro, forse un giorno
avrò a ricordarti questo discorso e chissà che un giorno io pure
abbia bisogno di te..."
"Allora, Eccellenza, mi troverete nel momento del bisogno, come io
avrò trovato voi; foste anche all'altra estremità del mondo, non
avreste che a scrivermi "fate questo" ed io lo farei sulla fede
di..."
"Zitto" disse lo sconosciuto, "sento del rumore."
"Sono viaggiatori che visitano il Colosseo."
"E' inutile che ci trovino insieme. Queste spie di guide
potrebbero riconoscervi, e per quanto sia onorevole la nostra
relazione, pur non ostante se si sapesse che siamo uniti in
amicizia, questo legame mi farebbe perdere non poco il mio
credito."
"E così, se voi avrete la grazia?..."
"La finestra di mezzo avrà il tappeto bianco ed una croce rossa."
"Se non la otterrete?..."
"Tutte e tre le finestre saranno addobbate coi tappeti gialli."
"E allora?..."
"Allora, menate il pugnale a vostro piacere, vi prometto di esser
là per assistervi."
"Addio, Eccellenza; conto su di voi, e voi contate su di me."
A queste parole il trasteverino sparì per la scala, mentre lo
sconosciuto coprendosi più che mai il viso col mantello, passò a
due passi da Franz e discese nell'arena per la gradinata esterna.
Un minuto dopo, Franz intese il proprio nome ripetersi sotto le
volte: era Alberto che lo chiamava. Aspettò per rispondere che i
due interlocutori si fossero allontanati, non volendo si sapesse
esservi stato un testimonio, il quale, se non aveva veduti i loro
volti non aveva però perduto una parola della loro conversazione.
Dieci minuti dopo Franz percorreva la strada per andare a piazza
di Spagna, ascoltando distratto la dotta dissertazione che Alberto
faceva, dietro la testimonianza di Plinio e Calpurnio, sulle reti
guarnite di punte di ferro che impedivano agli animali feroci di
slanciarsi sugli spettatori.
Egli lo lasciò discorrere senza contraddirlo; aveva troppa fretta
di trovarsi solo, per pensare senza distrazione a quanto era
avvenuto vicino a lui.
Di questi due uomini l'uno certamente era italiano, ed era la
prima volta che lo vedeva e lo sentiva, ma non era così
dell'altro, e quantunque Franz non ne avesse distinte le forme del
viso, sempre nascoste nell'ombra o nel mantello, l'accento di
questa voce lo aveva troppo colpito la prima volta che l'aveva
intesa, perché potesse mai più risuonare a lui vicino senza
riconoscerla.
Vi era, particolarmente nelle intonazioni ironiche, qualche cosa
di stridulo e di metallico, che lo aveva fatto rabbrividire fra le
rovine del Colosseo, non meno che nella grotta di Montecristo; per
cui era ben convinto che fosse Sindbad il marinaio.
In tutt'altra congiuntura, la curiosità che gli ispirava
quest'uomo sarebbe stata così grande, che si sarebbe fatto
riconoscere; ma in questa occasione, la conversazione che aveva
intesa era troppo intima per non essere trattenuto dal timore che
una sua comparsa non sarebbe stata gradita. Lo aveva dunque
lasciato allontanare, come si è veduto, ma ripromettendosi se lo
avesse incontrato un'altra volta, di non lasciarsi sfuggire una
seconda occasione.
Franz era troppo preoccupato per potere dormire bene. La notte fu
impiegata a passare e ripassare tutte le più minute particolarità
che avevano relazione con l'uomo della grotta, e con lo
sconosciuto del Colosseo; e più Franz ci pensava, più si
convinceva della sua opinione.
Si addormentò sul far del giorno, si svegliò molto tardi.
Alberto, da vero parigino, aveva già le sue mire per la serata.
Aveva mandato a cercare un palco al teatro Argentina. Franz aveva
molte lettere da scrivere in Francia, e lasciò la carrozza ad
Alberto per tutta la giornata.
Alle cinque questi ritornò; aveva già portate le lettere di
raccomandazione, ricevuto inviti per tutte le conversazioni
serali, e veduto Roma.
Un giorno era bastato ad Alberto per far tutto questo, ed aveva
anche avuto il tempo di informarsi dell'opera che si cantava, e
degli attori che la eseguivano.
L'opera s'intitolava Parisina; gli attori erano Cosselli, Moriani
e la Spech. I nostri due giovani non erano disgraziati, come si
vede, avrebbero sentita la musica di una delle migliori opere
dell'autore della Lucia di Lammermoor, cantata dai tre artisti più
rinomati d'Italia. Alberto non aveva mai potuto abituarsi ai
teatri oltramontani, nell'orchestra dei quali non è permesso
andare e che non hanno né palchi, né logge scoperte; ciò era
penoso per un uomo che aveva il suo posto agli Italiani, e nella
loggia infernale all'Opéra.
Ciò però non gl'impediva di vestirsi con accuratezza tutte le
volte che andava a teatro con Franz, toilettes sprecate, perché,
bisogna confessarlo a vergogna di uno dei rappresentanti più degni
del nostro "bonton", in quattro mesi che viaggiava l'Italia in
tutti i sensi, non aveva avuta ancora alcuna avventura.
Alberto qualche volta cercava di scherzare su questo argomento; ma
nel fondo del cuore era grandemente mortificato, egli, Alberto
Morcerf, uno dei giovani più intraprendenti, non aveva ancora
fatta alcuna conquista. La cosa era tanto più penosa, perché,
secondo l'abituale modestia dei nostri cari compatrioti, Alberto
era partito da Parigi con la ferma convinzione di avere in Italia
il più felice successo, e di ritornare a formar la delizia del
Bastione di Gand col racconto delle sue avventure.
Ahimè! non ne aveva avuta alcuna: le graziose contesse genovesi,
fiorentine e napoletane si erano conservate per i loro mariti, per
i loro amanti, ed Alberto aveva acquistata la crudele convinzione
che le italiane sanno essere almeno fedeli. Anche se non voglio
dire che in Italia, come in ogni altro luogo, non vi siano le loro
eccezioni. Eppure Alberto non era solo un cavaliere molto
elegante, ma aveva anche dello spirito; in più, era visconte, e di
nobiltà recente, è vero, ma oggi che importa, se la propria
nobiltà porta la data del 1393 o del 1815? Oltre tutto aveva
cinquantamila lire di rendita; e questo è molto più di quanto
bisogna per essere un giovane alla moda in Parigi. Era dunque un
poco umiliante non essere stato ancora seriamente osservato da
alcuna signora nelle città in cui aveva soggiornato.
Ma aveva stabilito di vendicarsi nel carnevale, essendo questo un
tempo di libertà in tutti i paesi della terra in cui è introdotta
questa istituzione, e nella quale anche i più stoici cadono in
qualche follia.
Ora, siccome il carnevale si apriva il giorno appresso, era
necessario che Alberto facesse conoscere il suo programma prima di
quest'apertura.
Alberto dunque, con questa idea, aveva preso in fitto uno dei
palchi più esposti, e prima di andarci fece una toilette
irreprensibile. Era al primo ordine, e del resto le tre prime file
di palchi sono ugualmente ed indistintamente aristocratiche, e per
questo si chiamano gli ordini nobili. Questo palco, nel quale si
poteva stare in dodici senza pigiarsi, era costato molto meno che
non sarebbero costati quattro posti in una loggia dell'"Ambigu".
Alberto aveva ancora un'altra speranza, ed era che se giungeva a
prendere un posto nel cuore di qualche bella romana, ciò lo
avrebbe naturalmente condotto anche a conquistare un Posto nella
carrozza. e per conseguenza a vedere il Corso dall'alto di una
carrozza aristocratica o da una finestra principesca.
Tutte queste considerazioni lo tenevano dunque in continuo
movimento.
Egli volgeva le spalle agli attori, sporgeva per metà fuori del
palco guardando le più belle donne con un cannocchiale lungo sei
pollici, cosa che non sollecitava alcuna signora a ricompensare di
un solo sguardo, anche di semplice curiosità, tutti i movimenti di
Alberto.
Difatti ciascuna parlava dei suoi affari, dei suoi piaceri, del
carnevale che cominciava l'indomani, senza fare attenzione né agli
attori, né alla musica, ad eccezione dei momenti in cui si volgeva
verso il palcoscenico per sentire un recitativo di Cosselli, per
applaudire a qualche bella nota del Moriani, per gridare brava
alla Spech. Indi le particolari conversazioni riprendevano il loro
corso abituale.
Verso la fine del secondo atto si aprì la porta di un palco
rimasto vuoto fino allora, e Franz vide entrarvi una persona alla
quale aveva avuto l'onore di essere stato presentato a Parigi e
che credeva ancora in Francia. Alberto vide il movimento che fece
il suo amico a questa comparsa, e volgendosi a lui:
"Conoscete forse quella signora?" disse.
"Sì, che ve ne pare?"
"Graziosa, mio caro; è bionda. Oh, che capelli adorabili! E' una
francese?"
"No, è veneziana."
"Come si chiama?"
"La contessa G."
"Oh, io la conosco di nome" esclamò Alberto, "dicono che sia tanto
spiritosa quanto è bella. Per Bacco, avrei potuto farmi presentare
a lei a Parigi all'ultimo ballo della Villefort, e non l'ho
avvicinata, sono un grande stupido!"
"Volete che ripari a questo torto?" domandò Franz.
"Come! voi la conoscete con abbastanza intimità per presentarmi
nel suo palco?"
"Non ho avuto l'onore che di parlarle tre o quattro volte in vita
mia, ma a tutto rigore ciò basta per non commettere una
sconvenienza."
In questo momento la contessa riconobbe Franz, e colla mano gli
fece un grazioso cenno, al quale egli rispose con un rispettoso
inchino di testa.
"Mi sembra che siate molto nelle sue grazie!" disse Alberto.
"Ecco ciò che inganna, e a noi francesi farà fare sempre mille
sciocchezze all'estero: sottomettere tutto ai punti di vista
parigini. Nella Spagna, e soprattutto in Italia, non giudicate mai
della intimità delle persone, dalla libertà dei rapporti. Io e la
contessa ci troviamo simpatici, ed ecco tutto."
"Simpatici di cuore?" domandò ridendo Alberto.
"No, di spirito..." rispose seriamente Franz.
"Ed in quale occasione?"
"Nell'occasione di una passeggiata al Colosseo, come quella che
abbiamo fatta insieme."
"Al chiaro di luna?"
"Sì."
"Soli?"
"Quasi."
"Ed avete parlato?..."
"Di morti."
"Ah, doveva essere una cosa assai piacevole. Ebbene, vi prometto
che se avrò la fortuna di essere il cavaliere della bella contessa
in una simile passeggiata, non le parlerò che dei vivi."
"E forse farete male."
"Frattanto, presentatemi alla contessa, come mi avete promesso."
"Subito, non appena sarà calato il sipario."
"Quanto è lungo questo diavolo di primo atto!"
"Ascoltate il finale, è bellissimo, e Cosselli lo canta
mirabilmente."
"Sì, ma che portamento!"
"Non si può essere però più drammatici della Spech."
"Quando si è intesa la Sontang e la Malibran..."
"Non trovate eccellente il metodo di Moriani?"
"A me non piacciono i bruni che cantano biondo."
"Ah, mio caro" disse Franz volgendosi, mentre Alberto continuava a
puntare il suo cannocchiale, "in verità siete molto difficile a
contentare."
Finalmente calò il sipario con grande soddisfazione del visconte
di Morcerf, che prese il cappello, dette colla mano un'assestata
ai capelli, alla cravatta, ai polsini, e fece osservare a Franz
ch'egli aspettava.
Siccome la contessa, che Franz interrogava con lo sguardo, gli
aveva fatto un segno impercettibile cogli occhi, per fargli capire
che sarebbe stato il benvenuto, così non tardò a soddisfare la
premura di Alberto, e mentre faceva il giro del corridoio, il
compagno ne approfittava per accomodare le false pieghe sul
colletto della camicia, e sui rovesci dell'abito. Batterono alla
porta del numero 4, che era il palco occupato dalla contessa.
Subito il giovane, che sedeva a lato della contessa sul davanti
del palco, si alzò cedendo il posto, secondo il costume italiano,
al nuovo arrivato, che deve cederlo a sua volta quando entra
un'altra visita.
Franz presentò Alberto alla contessa come uno dei giovani parigini
più distinti per la sua posizione sociale, per il suo spirito,
cosa d'altra parte vera, perché a Parigi e nel circolo in cui
viveva Alberto era ritenuto un cavaliere irreprensibile. Aggiunse
che afflitto di non aver potuto approfittare del soggiorno della
contessa a Parigi per farsi presentare a lei, lo aveva incaricato
di riparare a questo errore, missione della quale si disimpegnava,
pregando la contessa, presso la quale aveva bisogno egli stesso di
un introduttore, di perdonare la sua indiscrezione.
La contessa rispose facendo un grazioso saluto ad Alberto e
stendendo la mano a Franz. Invitato da lei, Alberto prese il posto
rimasto vuoto sul davanti, e Franz si sedette nella seconda fila
presso la contessa.
Alberto aveva ritrovato un eccellente argomento di conversazione:
Parigi; parlava alla contessa delle loro comuni conoscenze.
Franz capì che era sul terreno che gli conveniva, lo lasciò
parlare, e chiestogli il gigantesco cannocchiale, si mise
anch'egli ad esplorare il teatro.
Sola, sul davanti di un palco al terz'ordine di faccia, c'era una
donna molto bella, con un costume alla greca, portato con tanta
disinvoltura, che si capiva essere quello il suo vestito abituale.
Dietro ad essa, nell'ombra, si delineava la forma di un uomo di
cui era impossibile distinguere il viso.
Franz interruppe la conversazione di Alberto con la contessa per
chiedere a quest'ultima se conosceva la bella albanese tanto degna
di attirare l'attenzione non solo degli uomini, ma anche delle
donne.
"No" disse lei, "tutto ciò che so, è che si trova a Roma dal
principio della stagione; perché all'apertura del teatro l'ho
vista dove è ora, e da un mese non è mancata ad una
rappresentazione, ora accompagnata dall'uomo con lei in questo
momento, ora semplicemente seguita da un domestico moro."
"Come la trovate, contessa?"
"Estremamente bella. Medora doveva rassomigliare a questa donna."
Franz e la contessa si scambiarono un sorriso, poi questa riprese
il dialogo con Alberto, e Franz seguitò a fissare la bella
albanese.
Il sipario si alzò per la rappresentazione del ballo. Era uno dei
buoni balli italiani, messo in scena dal famoso Henry, che come
coreografo, si era fatta in Italia una reputazione colossale, che
poi il disgraziato perse al Teatro Nautico, per uno di quei balli
ove dal primo personaggio all'ultima comparsa tutti prendono una
parte attiva all'azione, e centocinquanta persone fanno nello
stesso tempo lo stesso gesto, ed alzano o il medesimo braccio, o
la medesima gamba.
Questo ballo era intitolato Dorliska.
Franz era troppo preoccupato della sua bella greca per potersi
occupare del ballo.
Quanto a lei, prendeva un manifesto piacere a questo spettacolo,
piacere che formava una singolare opposizione con la noncuranza di
colui che l'accompagnava, e che durante tutta la rappresentazione
coreografica non fece un movimento, sembrando che in mezzo al
rumore infernale che facevano le trombe, i cembali e i piatti
cinesi in orchestra, egli godesse le celestiali dolcezze di un
sonno pacifico.
Finalmente il ballo terminò, ed il sipario calò in mezzo agli
applausi frenetici di una platea entusiasta.
Per quest'abitudine di separare col ballo i due atti dell'opera,
gl'intermezzi fra un atto e l'altro sono cortissimi in Italia: i
cantanti hanno tutto il tempo di riposarsi e di fare i loro
travestimenti mentre i ballerini eseguono le loro danze.
L'introduzione del secondo atto cominciò.
Franz vide che, ai primi colpi d'archetto, il dormiente andava
alzandosi lentamente, e si avvicinava alla greca, che si volse per
dirgli qualche parola, quindi tornò ad appoggiarsi al davanti del
palco. La figura dell'interlocutore si teneva sempre fra l'ombra,
e Franz non poteva distinguere i tratti del volto.
Rialzato il sipario, gli attori attirarono necessariamente
l'attenzione di Franz; gli occhi lasciarono per un momento il
palco della bella greca per andare verso la scena.
Il secondo atto, come ognuno sa, comincia col duetto del sogno:
Parisina, dormendo, lascia sfuggire, davanti ad Azzo, il segreto
del suo amore per Ugo. Lo sposo tradito passa per tutti i furori
della gelosia, fino a che, convinto dell'infedeltà della sposa, la
sveglia per annunziarle la vicina vendetta. Questo duetto è uno
dei più belli, dei più espressivi, dei più terribili usciti dalla
penna di Donizetti.
Franz lo sentiva per la terza volta, e quantunque non passasse per
un melomaniaco arrabbiato, produsse su di lui un effetto profondo.
Stava per congiungere i suoi applausi a quelli del pubblico,
allorché le sue mani rimasero sospese in aria, ed i bravi che
stavano per uscirgli di bocca, si estinsero sulle labbra.
L'uomo del palco si era alzato in piedi e la sua testa veniva
rischiarata dalla luce: Franz riconobbe in lui il misterioso
abitante di Montecristo, quello che la sera innanzi gli era
sembrato di aver individuato fra le rovine del Colosseo.
Non c'era più dubbio, lo strano viaggiatore era a Roma.
Senza fallo, la fisonomia di Franz era in armonia col turbamento
che gettava nel suo spirito quest'apparizione, poiché la contessa
lo guardò, scoppiò in una risata, e gli chiese ciò che avesse.
"Signora contessa" rispose Franz, "poco fa vi ho domandato se
conoscevate quella donna albanese: ora vi domando se conoscete suo
marito."
"Niente più di lei!" rispose la contessa.
"L'avete mai osservato?"
"Ecco una domanda alla francese! Sapete bene che per noi italiane
non c'è altro uomo al mondo se non quello che amiamo!"
"E' giusto!" rispose Franz.
"In ogni modo" disse lei applicando ai suoi occhi il cannocchiale
di Alberto, e dirigendolo verso il palco, "lui dev'essere un
qualche dissotterrato, qualche morto uscito dalla tomba col
permesso dei becchini, poiché mi sembra spaventosamente pallido."
"E' sempre così..." rispose Franz.
"Voi dunque lo conoscete?" domandò la contessa. "Allora sono io
che vi domando chi è?"
"Credo di averlo veduto altre volte, e mi sembra di riconoscerlo."
"Infatti" disse lei, facendo un movimento colle sue belle spalle
come se un brivido le percorresse le vene, "capisco che quando un
tal uomo si è visto una volta, non si dimentica più."
L'effetto che Franz aveva provato non era dunque un'impressione
particolare, perché un altro l'aveva risentita al pari di lui.
"Ebbene!" domandò allora alla contessa, dopo che l'ebbe guardato
una seconda volta, "che pensate di quell'uomo?"
"A me sembra che sia lord Ruthwen in carne ed ossa."
Infatti questo nuovo ricordo di Byron colpì Franz; se qualcuno
poteva fargli credere l'esistenza dei vampiri, era quest'uomo.
"Bisogna ch'io sappia chi è..." disse Franz alzandosi.
"Oh, no" gridò la contessa, "no, non mi lasciate! Ho contato su
voi per accompagnarmi a casa, ed ora vi trattengo."
"Come, veramente" le disse Franz, accostandosele all'orecchio,
"avete paura?"
"Ascoltate" disse lei, "Byron mi ha giurato che credeva ai
vampiri, mi ha assicurato di averne veduti, e me ne ha descritti i
loro visi; ebbene, assomigliano perfettamente a quell'uomo là, con
i capelli neri, grandi occhi brillanti di una strana fiamma, quel
pallore mortale; poi aggiungete che non è con una donna come tutte
le altre, è con una straniera... una greca... una scismatica...
senza dubbio con una maga al par di lui... Ve ne prego, non
partite. Domani vi metterete sulle sue tracce, se così vi aggrada,
ma questa sera vi ritengo impegnato."
Franz insistette.
"Ascoltate" disse lei alzandosi, "io me ne vado, non posso
fermarmi sino alla fine dello spettacolo, perché ho gente in casa
che mi aspetta... Sarete così poco galante da negarmi la vostra
compagnia?"
Franz non aveva altra risposta a dare che prendere il cappello,
aprire la porta, e presentare il braccio alla contessa.
E questo fece. La contessa era veramente molto commossa: lo stesso
Franz non poteva sfuggire ad un certo terrore superstizioso, tanto
più naturale in quanto nella contessa era il prodotto di una
sensazione distinta, ed in lui il risultato di strani ricordi.
Nel salire in carrozza sentì che la contessa tremava.
La ricondusse fino a casa: non era vero che era attesa, gliene
fece perciò dei rimproveri.
"In verità" disse lei, "non mi sento bene, ed ho bisogno di esser
sola, la vista di quell'uomo mi ha sconvolta."
Franz fece atto di ridere.
"Non ridete" gli disse lei, "d'altra parte, non ne avete la
volontà. Promettetemi una cosa..."
"E quale?"
"Promettetela."
"Tutto quel che vorrete, eccetto di rinunziare a scoprire chi è
quell'uomo. Ho dei motivi che non posso dirvi per desiderare di
sapere chi sia, donde venga e dove vada."
"Donde venga non lo so, ma dove vada, ve lo posso dire a colpo
sicuro: va all'inferno."
"Ritorniamo alla promessa che volevate da me."
"Ah, si tratta di tornare direttamente all'albergo e cercare di
non veder questa sera quell'uomo. Vi è una certa affinità fra le
persone che si lasciano e quelle che si raggiungono; non vogliate
servire di tramite fra quell'uomo e me. Domani corretegli dietro
come più vi aggrada, ma non me lo presentate mai, se non volete
vedermi morire di paura. Dopo ciò, buona sera; cercate di dormir
bene, quanto a me, sento che non dormirò!"
A queste parole la contessa si allontanò da Franz, lasciandolo
irresoluto, nel dubbio se si era divertita alle sue spalle, o se
aveva veramente sentita la paura espressa.
Ritornando all'albergo, Franz ritrovò Alberto in veste da camera,
con larghi calzoni e voluttuosamente disteso sopra una poltrona,
fumando un sigaro.
"Ah, siete voi" disse, "non vi aspettavo che domattina."
"Mio caro Alberto" rispose Franz, "colgo l'occasione di dirvi, una
volta per sempre, che avete la più falsa idea delle donne
italiane; mi sembra pertanto che le vostre sconfitte amorose
avrebbero dovuto farvela perdere."
"Che volete, non c'è niente da capire con questi diavoli di donne:
vi danno la mano, ve la stringono, vi parlano a bassa voce
all'orecchio, si fanno accompagnare a casa; con la quarta parte di
tal congegno una parigina perderebbe la sua reputazione."
"Eh, questo accade precisamente, perché non hanno nulla da
nascondere, perché vivono in pieno giorno, ecco, perché le donne
usano tanti pochi riguardi nel bel paese là dove il sì suona, come
dice Dante. D'altra parte, vedeste bene, la contessa ha avuto
veramente paura."
"Paura di che? Di quell'onest'uomo di faccia a noi con quella
bella greca? Ho voluto vederci chiaro quando sono usciti, e sono
andato loro incontro nel corridoio. Non so dove diavolo avete
prese tutte le vostre idee dell'altro mondo! E' un bellissimo
giovane molto elegante, e gli abiti hanno l'aspetto d'esser fatti
in Francia da Blin o da Humann. E' un po' pallido, è vero, ma voi
sapete che il pallore è un marchio di distinzione."
Franz sorrise, perché Alberto aveva la pretesa d'esser pallido.
"Io pure" disse Franz, "sono convinto che le idee della contessa
su quest'uomo siano prive di buon senso. Ha parlato vicino a voi
ed avete udita qualcuna delle sue parole?"
"Ha parlato, ma in dialetto; ho riconosciuto l'idioma e qualche
parola greca sfigurata. Bisogna che sappiate, mio caro, che in
collegio ero molto valente in greco."
"Parlava dunque un dialetto greco."
"E' probabile."
"Non vi è dubbio" mormorò Franz, "è lui."
"Che dite?..."
"Niente... Ma che facevate voi là?"
"Vi preparavo una sorpresa."
"Quale?"
"Sapete che è impossibile ritrovare una carrozza?"
"Per Bacco! dopo che abbiamo tentato tutto ciò che era umanamente
possibile fare..."
"Ebbene, ho un'idea meravigliosa."
Franz guardò Alberto, come non avesse gran fiducia nella sua
immaginazione.
"Mio caro" disse Alberto, "mi onorate di uno sguardo tale, che
meriterebbe vi domandassi soddisfazione."
"Sono disposto a darvela, amico mio, se la vostra idea è ingegnosa
quanto dite."
"Ascoltate."
"Ascolto."
"Non c'è mezzo di procurarsi una carrozza?"